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L’allenatore deve essere al tempo stesso maestro, amico e poliziotto.

                (Vujadin Boskov)

 

  Il  tifoso si sfoga

L'ennesimo addio

Il possibile divorzio tra Spalletti e De Laurentiis dimostra che solo a Napoli può succedere l'impossibile. Ma dimostra anche, una volta ancora, che il carattere del presidente non deve essere cosi "cordiale". Tutte le partenze eccellenti avdrebbero riconsiderate con un altro occhio...

Pasquale Russo - Napoli 

 

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    Se Napoli è un teatro a cielo aperto, il Maradona non può essere da meno. La recita è nel giorno del festeggiamento, in diretta nazionale. La città celebra i suoi eroi, ma la finzione è in scena. Perché la consacrazione sottende l’appartenenza, ma appartenenza non c’è più. Nel calcio, l’addio è un fatto sempre potenziale ed ineluttabile, ma, con Spalletti, uno strappo si è già consumato ed altri potrebbero aggiungersi. Napoli assorbe tutto con un senso di distacco, festeggia la maglia ed il tricolore, ignora con malcelata strafottenza i fantasmi che incombono sul domani, perché oggi è giusto che sia così. Ma quando l’ebbrezza calerà, la sostanza dei fatti sarà impietosa: vittoria ed implosione sostengono una contraddizione che i tifosi non meritano. Intendiamoci: non c’è dubbio che ogni sforzo sarà profuso per dare continuità al progetto. E sicuramente non mancheranno entusiasmo e credibilità. Ma quando cambiano gli uomini, scompaiono le certezze già maturate. Il rischio diventa una variabile ovvia e sgradita, specie se hai uno scudetto cucito in petto.
    Sui media passa il messaggio più scontato: quando un rapporto si logora è meglio finirla. Vero, ma ciò non sottrae le colpe a chi ne ha. De Laurentiis farebbe bene a farsi qualche domanda sulle emotività che impone e che puntualmente sfiancano i suoi rapporti con i tecnici. Da Mazzarri a Benitez, da Sarri a Spalletti, gli addi si consumano per sfinimento, non per difetto di risultati. E’ un epilogo ricorrente contro gli interessi dello stesso presidente, costretto ad aprire nuovi progetti interrompendo quelli ben avviati. Sarà anche il prezzo da pagare per una personalità ingombrante, ma un sedicente visionario non può essere contento se perfino il timoniere del suo scudetto chiude garbatamente la porta e scappa via. Dal canto suo, Spalletti sostiene la motivazione meno credibile, il'amore estremo, per giustificare una fuga ben poco legata al sentimento. Incompatibilità a parte, due milioni e ottocentomila euro non valgono il rischio di un passo indietro. Meglio evitare indebolimenti della rosa, attendere e ripartire altrove, da vincitore e con ben altro ingaggio. Tutto lecito, per carità. Ma così non ripaga, nei fatti, l’amore incondizionato che sostiene di ricambiare. Ecco la vena di falsità che sporca il lieto fine e mortifica la spontaneità del popolo che gli chiede di non mollare.
    Queste gocce di veleno sono il preludio della nuova stagione già alle porte, perché la programmazione parte da domani ed è parte integrante e decisiva del futuro azzurro. La dolorosa cessione di qualche big gonfierà la borsa del Napoli e consentirà -comunque- investimenti interessanti. E’ una certezza da maneggiare con competenza ed un pizzico di fortuna. La stessa che ha portato a Napoli, nello stesso momento, i campioni di oggi. Perché senza buona sorte non non si cantano messe, ne’ inni al tricolore.

(Fa.Cas.)
 

    Cercare il record dei punti schierando i rincalzi è già una contraddizione in sé. Figuriamoci poi se a Bologna trovano spazio quasi tutti, come è normale che avvenga per un ovvio debito morale. Lo spirito di gruppo sfiora la supponenza, ma il Napoli disegnato a Bologna segue gli obblighi e sacrifica punti. Gli azzurri del Comandante conservano il record, ma forse è giusto che mantengano un loro primato: non arrivò il tricolore, ma nel cuore è rimasta la poesia di un collettivo che nessuno dimenticherà. Quel Napoli, in fondo, non merita altri tipi di ridimensionamento sulla semplice onda del grande entusiasmo di oggi.
    Piuttosto -e la cosa acquista valenza alle porte della campagna acquisti- ora è facile cogliere il tratto comune fra i due organici. Il Napoli di Sarri finì con la riserva accesa per mancanza di ricambi, quello di Spalletti vince (fortunatamente) per distacco, ma sostituti ne ha ben pochi. Se escludiamo il reparto offensivo, assoluta delizia della stagione, Anguissa, Lobotka e Zielinski sono pezzi unici regolarmente costretti agli straordinari, mentre la sola assenza di Kim (potenzialmente in odore di cessione) provoca in difesa effetti devastanti: Berezynski, Juan Jesus ed Ostigard non offrono l'affidabilità richiesta a chi deve difendere il titolo. Chi ritiene che sia soltanto il momento di festeggiare dimentica che la programmazione è un dovere impietoso ed ha le sue urgenze soprattutto quando le lacune acquistano evidenza palese in tempo utile.
    In questo senso, le verosimili partenze di Giuntoli e Spalletti sottraggono certezze a chi credeva nella continuità di progetto in evoluzione. Se la sostanza è scoraggiante, la forma è irriguardosa verso l'amore di Napoli. Fra sentenze sibilline e tatuaggi ad effetto, Spalletti segue una logica maldestra, quasi infantile. Disegna sulla sua pelle l'appartenenza indelebile all'affetto da cui è pronto a fuggire: è come lasciare la propria moglie per l'incompatibilità con la suocera. Caro Luciano, a Napoli può accadere di tutto, ma ricorda che il ridicolo resta sempre tale.

(Fa.Cas.)


    Quando non è più il campo a parlare, la magia del calcio svanisce. Vanità ed interessi umani prendono la scena secondo un copione brutale, quasi violento. La poesia delle emozioni esce mortificata, perchè i protagonisti prima la alimentano, poi sembrano dimenticarsene per seguire un gioco delle parti sprezzante dell’amore che ricevono. Eroi di una impresa che la città attendeva da lunghi decenni, De Laurentiis e Spalletti rompono l’incantesimo senza curarsi di nulla, senza spiegazioni rispettose della gente, senza una logica che i tifosi possano almeno analizzare. La gente annega tra mille ipotesi ed improbabili notizie di mercato, poichè la dialettica dei protagonisti è al limite dell’insolenza: la situazione e chiara, siete voi a non voler capire. Ma cosa?
    Riuscire nell’impresa di rovinare il clima di una festa tanto attesa era difficile, ma non cosi’ impossibile. L’eventuale partenza di Spalletti priverebbe la piazza di molte certezze: la prosecuzione di un lavoro ben avviato, il valore aggiunto di un tecnico capace di valorizzare talenti nuovi o dimenticati, la possibilità di arricchire la rosa sulla base di conoscenze maturate in anni di lavoro. Sarebbe, quasi inutile precisarlo, la dichiarazione di un ridimensionamento che soltanto l’euforia per la nuova stagione potrebbe apparentemente coprire, senza annullarne gli effetti. De Laurentiis, sempre molto attento alla scelta dei nuovi tecnici, potrebbe senz’altro garantire il colpo di teatro. Ma i danni sarebbero comunque difficili da neutralizzare, specie se qualche cessione eccellente dovesse complicare le dinamiche della campagna acquisti.
    In equilibrio fa euforia e perplessità, Napoli ha vissuto un'altra serata memorabile. La presunzione di Inzaghi, che ha creduto di uscire indenne lasciando diversi big in panca ha spalancato all'Inter il baratro della dodicesima sconfitta in campionato. L'espulsione del ruvido Gagliardini ha fatto il resto, ma il Napoli era tornato sè stesso. La perla di capitan Di Lorenzo ha suggellato una stagione perfetta. Serietà e dedizione assoluta: ecco la firma più nobile sotto questo tricolore.

(Fa.Cas.)

 

    E' questa la passerella giusta? L'equilibrio fra le dinamiche di squadra e il rispetto che si deve al tricolore appena ottenuto appare, già da subito, una questione complicata da affrontare. Poiché la sconfitta in sé non è mai una alternativa da accettare passivamente, né un dazio giusto da pagare nel nome della gratifica degli scontenti. La verità è che Spalletti affronta la necessità di schierare chi ha giocato meno mentre la squadra soffre ancora la flessione di una primavera maledetta nel rendimento - sette gol nelle ultime dieci partite- ma baciata da una vittoria storica. Dirottare l'attenzione verso le motivazioni personali potrebbe avere più senso se non conoscessimo il calo di cui il Napoli soffre già da un pezzo. Qualcosa da tenere nel dovuto conto nel programmare la prossima stagione: i successi di Spalletti poggiano su una partenza fulminea, ma con i primi caldi si paga dazio. E' questo il copione -vincente ma subdolo- visto anche l'anno scorso.
    Potrebbe trattarsi di un ovvio problema di preparazione, ma la realtà si complica se affrontiamo la questione dei ricambi. Se il Napoli cala è anche perchè il minutaggio è ripartito male. La squadra neocampione non ha alternative soddisfacenti alla linea di centrocampo: Lobotka ormai boccheggia, Anguissa ha perso lo smalto dei giorni migliori, Zielinski -nella sua discontinuità- si fa rimpiangere al primo avvicendamento. La maledetta questione dei titolarissimi continua a perseguitare il Napoli anche quando vince lo scudetto: Demme e Ndombele sembrano sul piede di partenza, mentre Elmas è l'eterna, magnifica incompiuta di ogni benedetta domenica. La difesa non fornisce una soluzione di vera qualità a Di Lorenzo, Ostigard e Juan Jesus non garantiscono l'eccellenza adatta a certi palcoscenici.
    Proprio per questo, il prossimo mercato si complica con una variabile in più. Sostituire qualche titolare eccellente potrebbe non bastare se non verranno risolti i problemi strutturali ormai noti. Aprire un ciclo è possibile, ma è sicuramente più complicato di quanto l'euforia di oggi possa suggerire. Chi si ferma è perduto, una volta di più.

(Fa.Cas.)
   

 


    Il gusto della vittoria non è mai uguale a sé stesso. A Napoli è toccata la sorte più  appagante, uno stato di estasi collettiva che non mai ha patito pause, perplessità, timori. La parvenza di incertezza nel cogliere il successo sembra perfino studiata, come un artefatto concepito per protrarre il piacere della vittoria e prolungare l'ebbrezza per giorni. Sommersi dall'euforia, fingiamo di vivere con stupore un copione in realtà obbligato, l'unico possibile. La celebrazione della passione azzurra è interminabile, ha il culto dell'eccesso e non può avere toni moderati, perchè non c'è stata moderazione nelle delusioni, nell'attesa, in quel senso di frustrazione che ci è stato imposto per decenni da un sistema fin troppo orientato verso i successi del Nord.
   Perchè lo scudetto del Napoli non è solo uno tra i tanti. Perchè in centoventuno titoli assegnati, solo nove volte -compreso questa-  lo scudetto è sceso al centro-sud. Ogni volta, una impresa. Ogni volta, la coscienza di aver rotto un incantesimo. Ogni volta, quel senso di profanazione che può costar caro. Per vincere, occorre il miracolo, da sempre. Ma se negli anni '80 bastava avere in squadra il Dio del pallone e qualche degnissimo comprimario, oggi il successo poggia su lunghe programmazioni, bilanci virtuosi, dinamiche di competizione internazionale alla portata di pochi club. Il Napoli, che vive ai margini di una elite già consolidata, può sopravvivere -e bene- solo grazie ed una gestione eccellente, magari agevolata da qualche intuizione, a volte ovvia.
    Sì, perche ora che l'emotività popolare che ha accompagnato la partenza di Koulibaly, Mertens, Insigne e Fabian si è sciolta nell'euforia, possiamo concludere che la tanto decantata virtù societaria era in realtà una ovvietà gestionale che ha allontanato da Napoli giocatori che non valevano la spesa (Insigne e Mertens, ormai trentacinquenne) o che garantivano una plusvalenza irrinunciabile (KK e Fabian Ruiz). La seconda metà del capolavoro è consistita in intuizioni di mercato clamorose e quasi  contemporanee (Osimhen, Kvara,  Kim, Anguissa), per le quali è fin troppo semplice, oggi, celebrare il rapporto tra rendimento ed ingaggio, poichè è facile pagare poco un giovane ancora rampante. ll fiuto nello scouting e la coerenza nel tetto dei compensi andranno piuttosto dimostrati nella prossima stagione, quando si tratterà di confermare certi tetti salariali o di pescare nuovi crack di mercato nella eventuale sostituzione di quelli vecchi. Con una continuità di scelte vincenti nella quale il Napoli -storicamente- non ha sempre brillato.
    Tutto questo conduce -una volta di più- ad un unico valore: la competenza. Una qualità essenziale, condivisa, in una struttura così basica come è la società azzurra, da due protagonisti assoluti: Spalletti e Giuntoli. Entrambi ancora con un anno di contratto, entrambi blanditi dalla tentazione dell'addio dopo un trionfo memorabile. Nel confronto mediatico, De Laurentiis ha manifestato la sua intenzione di continuare insieme, scaricando le responsabilità e lanciando quel messaggio che tutti si aspettano: lavoriamo e continuiamo a vincere. Il secondo miracolo di questo magico maggio è che la gente, oggi, gli crede davvero.

(Fa.Cas.)


 

 



    Alla fin fine, è una pura questione di calendario. Estendere il piacere dell’attesa può essere un dolce supplizio. Lo è molto di meno dover festeggiare di giovedì notte, quando il turno infrasettimanale non consente le libertà del weekend o la comodità della prima serata. La delusione è tutta lì: il popolo napoletano meriterebbe di celebrarsi con gli agi delle occasioni straordinarie. Dopo trentatrè anni di attesa, lo scudetto va assaporato con calma e nella massima compagnia. Roba da riflettere perfino sulla possibile vittoria ad Udine: se la gloria arriva in casa, c’è un gusto in più.
    Sulla fatica dell’ultimo chilometro, evocata da Spalletti, nessuno può discutere, specie se le difficoltà sono più emotive che agonistiche. Vista l’atmosfera celebrativa, la disamina tecnica può risultare ingenerosa o fuori luogo, ma è innegabile che qualche stento in attacco oggi non sorprende più nessuno. Il Napoli è attualmente sostenuto dal suo solidissimo impianto di gioco, ma il gol arrivano col contagocce e fra mille patemi. E’una evidenza sancita dai numeri e dal rendimento di alcuni singoli (Zielinski e Lozano su tutti) sui quali sarà opportuno aprire qualche riflessione in vista di una stagione che gli azzurri dovranno affrontare da Campioni d’Italia, col cinismo imposto dalle responsabilità del caso. L’eccesso di pressione, evocato a caldo da qualche commentatore, è un alibi debole, uno stato emotivo inammissibile per una squadra come il Napoli, fin troppo risolta e consapevole -in Europa come in Italia- della propria dimensione agonistica e mentale.
    In questa mezza delusione, l’esultanza del tifo salernitano, entusiasta per la memorabile impresa, è comprensibile e sacrosanta. Anzi, in qualche modo rimarca le differenze fra la dimensioni di due realtà aliene tra loro per storia ed obiettivi. L’ostilità fra due squadre corregionali, concepibile per rivalità di campanile ma assurda per le troppe dinamiche antimeridionali che le accomunano, non merita di essere alimentata quando è solo il campo ad emettere i suoi verdetti. Idiozie ultrà a parte, si capisce.

(Fa.Cas.)



   

 

    Eppure, basterebbe razionalizzare. Per superare il turno di Champions, almeno una vittoria sarebbe pur stata necessaria. E allora, dov’è il disagio emotivo? La verità, probabilmente, è nel peso specifico dell’imprevisto o nell’inconfessabile timore che il Napoli non sia più lui, schiacciato dal peso della fatica, della pressione, dell’imponderabile. Ma gli azzurri conservano il privilegio di giocarsi la gloria nella loro tana, sospinti da un entusiasmo ritrovato,  che compenserebbe qualsiasi assenza. La sconfitta di Milano brucia, ma è semplice da metabolizzare, volendolo. Perché il Milan, pur vincendo, resta una squadra capace di produrre due tiri nello specchio della porta ed un eloquente bel nulla nel periodo di superiorità, soffrendo, anzi, il terrore del pareggio proprio nel momento in cui avrebbe dovuto determinare il confronto. il primo incontro ha premiato i rossonera, ma, paradossalmente, anche le argomentazioni di chi esultava dopo il sorteggio.
    Altre argomentazioni, invece, sembrano difficili da seppellire. L’assurda questione legata agli umori delle curve dimostra semplicemente che la smania di protagonismo supera l’amore spassionato per una squadra lasciata sola proprio nel momento più importante. Se una festa di popolo non può consacrarsi proprio nel tempio dei successi azzurri, le città registra l’ennesima sconfitta immeritata ed un danno di immagine che coinvolge, come triste consuetudine, il volto pulito di Napoli.
    La gara contro il Verona è un pareggio quasi già scritto, una finta delusiona annullata dal vantaggio in classifica, il conto in banca sul quale il Napoli poggia la magnifica leggerezza di queste ultime giornate. Il punticino incide sul distacco ma ha il merito, nell'ultimo quarto d'ora, di fotografare la potenza di una squadra al completo, la straripante efficacia del suo centravanti e -conseguentemente- di un reparto con una forza offensiva ben distribuita. Cio' che è mancato a Milano, ciò che ci sarà al Maradona. Quando un pareggio può gonfiare i cuori.

(Fa.Cas.)

 

     Le reazioni alla vittoria di Lecce sono svariate ma sommesse, quasi disorientate dallo sgomento di dover spiegare un Napoli che non si riconosce più. Accomunati dal segno positivo, frutto dei punti che coprono una cascata di perplessità, i pareri ondeggiano dal compiacimento per la prova di carattere, alla padronanza emotiva dopo il rovescio con il Milan, al mero vantaggio matematico, che resta l'unica, straordinaria ipoteca sul tricolore che ha già sommerso Napoli di azzurro. Ma il dato oggettivo incatena il tifoso ai suoi dubbi: quel bel Napoli è oggi solo un ricordo. E se la squadra non sembra in affanno fisico, le ipotesi restano due: il calo di forma di alcuni singoli ed  il dubbio, sottile ma devastante, che per gli avversari, trovare le contromisure tattiche non sia più impresa impossibile. Le sconfitte contro Lazio e Milan hanno parlato chiaro, nel silenzio della tana azzurra già in festa.
    Il punto è che nessuno si avvilisce più di tanto, in chiave tricolore. Al di là degli scenari apocalittici e grotteschi legati all'atavico retaggio bianconero, i patemi sono rivolti al percorso in Champions League, una specie di autostrada per il paradiso che ha rimosso (magari a giusta ragione) troppi freni inibitori. Ed è proprio lì che prende forma il pericolo di un finale di stagione vincente e paradossale: che le speranze improvvisamente riposte nella Champions producano una delusione che offuschi la felicità per un traguardo inseguito per trent'anni. Lo spettro del rimpianto, perfino nell'anno del terzo scudetto, è la maledizione eterna per una città che già vive di contraddizioni ataviche e di entusiasmi repressi.
    Nell'attesa che il Napoli recuperi le certezze smarrite, il Milan ha presto ricordato i suoi limiti. Il pareggio interno con l'Empoli, se non altro, dimostra che rendimento dei rossoneri resta alterno e troppo spesso legato alle fiammate dei singoli. Le prestazioni degli utimi giorni non hanno equilibrato i valori delle contendenti. Piuttosto, hanno certamente alzato la soglia dell'attenzione azzurra. Sperare che il Napoli si esprima come sa, dopotutto, non è un peccato di presunzione.

(Fa.Cas.)

 

   

     Il privilegio di gustare domenica dopo domenica il sapore di uno scudetto già vinto è fra le scoperte su cui nessuno avrebbe scommesso ad inizio stagione. L’annata perfetta del Napoli fa tappa a Torino, ma il piacere della vittoria cambia di poco. Mentre Spalletti ha il suo da fare per scongiurare i pericoli dell’appagamento, alla squadra bastano livelli di rendimento appena sufficienti, poiché la zampata dei soliti noti non tarda ad arrivare. Nella sua irruenza adolescenziale, Osimhen non conosce pause di agonismo, mentre a Kvara basta toccare un paio di palloni in area per seminare panico e raccogliere falli da rigore. L’enfasi per un collettivo da favola non può nascondere la superiorità manifesta di alcuni elementi che il caso ha voluto a Napoli nello stesso momento. Termini di paragone scomodissimi per chi ne raccoglierà il testimone, quando le leggi di mercato riempiranno le casse azzurre imponendo seri sacrifici di cuore. La capacità di Spalletti nell’intervenire sulla crescita di giovani speranze resta l’unica variabile certa e rassicurante per il futuro: la continuità azzurra ha nel talento del mister un riferimento irrinunciabile.
     Trovare nuovi aggettivi che esprimano la superiorità azzurra diventa sempre più una impresa. Più semplice individuare aree di perfettibilità, soprattutto ora che si avvicina un aprile memorabile. E nell’eterna attesa del miglior Lozano, talentuoso ma discontinuo, il tifoso si chiede cosa sarebbe il Napoli se fosse sempre devastante anche sulla fascia destra, dove troppo spesso sono solo le sovrapposizioni di un inesauribile Di Lorenzo a dare concretezza agli attacchi azzurri. Sembrano diradarsi, invece, le preoccupazioni per un cedimento atletico, poiché il distacco abissale in classifica consentirà a Spalletti di gestire con leggerezza il turnover degli elementi più affaticati.
    Nella stagione perfetta, il sorteggio ideale. Difficile ipotizzare a a tavolino una combinazione di eventi più gradita di quella nata dalle urne. Il destino sembra incoraggiare gli azzurri con ogni mezzo, anche se qualcuno cerca di manovrare gli umori della piazza come se la gente non fosse in grado capire che la percezione di superiorità non esclude il bisogno di concentrazione. Incompetente è chi sottovaluta l’intelligenza dei napoletani. Strano è averne il dubbio.

(Fa. Cas.)
 

    Mentre il Napoli si interroga su significati e motivazioni della sconfitta con la Lazio, le inseguitrici mandano segnali eloquenti: nessun dramma, quest’anno l’anti-Napoli non c’è. Nel tentativo di minimizzare i meriti del azzurri, in molti sottolineando la mediocrità di un campionato mai decollato in termini di agonismo e rivalità. E’ una evidenza difficile da ignorare, se la seconda in classifica, quando su Napoli-Atalanta si alza il sipario, ha collezionato già sette sconfitte ed una sequela infinita di polemiche. L’errore, probabilmente, consiste nell’estremizzare la questione, poiché il divario giustifica ipotesi che non si elidono tra loro: il Napoli resta fuori categoria in un contesto oggettivamente mediocre.
    La stessa sconfitta con la Lazio ha ingigantito demeriti opinabili. Hanno fatto molta presa l’enfasi sui meriti tattici di Sarri e l’immagine del vecchio stratega che insegna calcio proprio dove è nata una leggenda. Ma la fase di possesso non ha conosciuto momenti di vero dominio Laziale che andassero oltre qualche episodica conclusione a porta. Troppo poco per sancire flessioni di condizione o vere svolte negative del rendimento azzurro. Quando Spalletti afferma di non aspettarsi reazioni poiché non vi sono errori da correggere, non si abbandona al gioco delle parti. Semplicemente sottolinea l’oggettiva casualità della prima caduta interna.
     La sfida con l'Atalanta è stata la prova, provata una volta ancora, di una superiorità senza repliche. Quando non è il collettivo, è la spunto dei singoli a rompere gli equilibri: il calcio diventa materia elementare quando le alchimie tattiche vengono devastate dalle fiammate di due gioielli. Il primo difende palla su un rilancio lungo, il secondo mette a sedere la difesa prima di concludere di prepotenza in rete. Le virtu' del Napoli coinvolgono talento, gestione e programmazione. E' solo obbligo di coerenza economica ad allungare le sue ombre sulla felicità dei tifosi, quando si tratterà di tenersi stretti i propri tesori. E' questa l'unica vera sfida, straordinariamente più ostica di qualsiasi sorteggio di Champions.

(Fa.Cas.)

Tra i privilegi di una galoppata solitaria c'è il più dolce: non curarsi troppo degli incidenti di percorso. Ma da ciò deriva anche un obbligo: farne tesoro. I canti a fine partita sono espressione di una misurata noncuranza, ma qualcosa da imparare dalla lezione del Comandante c'è eccome. Intanto. qualche indicazione sui valori effettivi del Napoli. E' impossibile ignorare, a fronte di una fiducia sconfinata nelle potenzialità della squadra, che è bastato qualche accorgimento tattico per ridurre all'impotenza una macchina da reti finora inarrestabile. Comunque la si metta, paralizzare il motore del gioco azzurro, Lobotka, determina le dinamiche della partita e resta il tallone di Achille di un organico che non ha piani di riserva.  Lo ha capito perfino Sarri, che ha arretrato il baricentro e le sue vecchie convinzioni sul comando della partita. Il Comandante aveva nella fatica dei suoi l'unico avversario, ma ne è uscito da grande vincitore, che piaccia o no.
    Il secondo messaggio investe la potenzialità dei singoli, poichè il Napoli avrebbe potuto liberarsi dalla paralisi con lo spunto di uno dei suoi campioni, ma ha prodotto poche occasioni da rete nitide. Che la Lazio abbia avuto la meglio solo grazie ad una delle due occasioni prodotte è una evidenza solare, ma liquidare le indicazioni della gara con il concetto di serata storta sarebbe riduttivo e semplicistico. Il senso della realtà impone due morali: non presumere troppo, applicarsi a testa bassa fino al traguardo finale. E' questo il suono della sveglia di ieri al Maradona, qualcosa che Spalletti avrà modo di ribadire nel chiuso dello spogliatoio.
    Il materiale umano, mai dimenticarlo, è di provata tenacia. Alla sconfitta con l'Inter fece seguito una serie infinita di vittorie che hanno distrutto le velleità delle avversarie oltre ogni lecita speranza. Il carattere dello spogliatoio è l'arma in più che ha sorretto la squadra nei rari momenti di difficoltà. Qualcuno dice che questo organico non avrebbe mai potuto perdere uno scudetto in albergo. Probabilmente è vero. Ed allora, figuriamoci se potrebbe mai perderlo oggi, quasi già sull'autobus scoperto a far festa tra la gente.

(Fa.Cas.)
   

    Alla settima sconfitta della stagione ed ormai con diciotto punti di distacco, le speranze di recupero dell'Inter sprofondano oltre ogni logica. Gli aggiornamenti in serie A dipendono ormai dalle disgrazie delle inseguitrici, poichè il Napoli non fa più notizia da tempo: la vittoria è la regola, le disamine non riguardano più la via per lo scudetto ma lo stupore per una squadra che supera gli ostacoli con una padronanza che non conosce pause umane. Ad Empoli la simbolica catarsi azzurra: dopo il suicidio che affondò le residue speranze della scorsa stagione, una nuova perentoria prova di forza. Per l'improvvida reazione da cartellino rosso di Mario rui, l'inferiorità numerica è stata l'ultimo pretesto per celebrare gli attributi di una squadra incapace di soffrire. Nemmeno in dieci.
    L'unico argomento che appassiona i tifosi è la gestione delle risorse umane. Perchè il Napoli -ed è questo il più meritato dei premi dopo una cavalcata storica- avrebbe modi e tempi per giocarsi la Champions senza i fatidici condizionamenti del campionato. La scelta è doppia per ogni ruolo, la panchina ha un notevole peso specifico, l'attacco -aspettando il ritorno di Raspadori- offre garanzie e variazioni tattiche straordinarie. Insomma: mentre l'opinione pubblica alza l'asticella delle potenzialità azzurre fino a misure improbabili, ciò che realisticamente tocca a Spalletti è il dovere di presentarsi al meglio agli appuntamenti con la Storia. Ed il pensiero corre subito alle condizione di Lobotka, baricentro di gioco ed ambizioni, unico neo di una programmazione memorabile che non gli ha concesso, però,  un degno ricambio. L'ostinazione con la quale Spalletti non gli concede pause è un giudizio implicito sull'affidabilità di Demme e la sommessa confessione di un limite. Un Napoli senza Lobotka non esiste e -soprattutto- non si è quasi mai visto. Alla gente non resta che esorcizzare il pericolo, al punto di ignorarne perfino l'eventualità. Siamo a Napoli: anche l'annata perfetta ha bisogno del suo pizzico di scaramanzia.

(Fa.Cas.)
   


 

    E' un incantesimo senza fine.  Con la disinvoltura dei predestinati, gli azzurri fanno bottino pieno pure a Reggio Emilia, anche quando il distacco allenta la cattiveria, perfino se l'imminente impegno in Champions assorbe concentrazione e forza mentale. Il distacco (provvisorio ma significativo) di diciotto punti apre una voragine sconosciuta al calcio italiano e certifica uno stato di grazia di cui inquadreremo le dimensioni reali solo in futuro, poichè la realtà di oggi (venti vittorie su ventitrè partite) appartiene ad un quotidiano a cui siamo ormai assuefatti, ma di normale non ha nulla.
    L'ingranaggio perfetto non delude mai, giornata dopo giornata. Ma se da una parte il lavoro di Spalletti giustifica un primato mai in discussione, dall'altro è anche il caso si ammettere che le potenzialità di alcuni singoli, da sole, sarebbero in grado di risolvere molte partite complicate. I numeri perentori di Osimhen, le invenzioni di Kvaratskhelia sono la delizia di ogni domenica ma anche la potenziale croce di chi conosce le dinamiche del mercato globale e la (obbligata) filosofia di gestione del Napoli, poichè la continuità di un ciclo vincente è certa solo con la permanenza di chi lo determina. Ecco il lusso che il Napoli difficilmente potrà permettersi, specie se lo scudetto in arrivo creerà un fatale ritocco al rialzo di molti ingaggi. Agli occhi del tifoso, la gestione dei gioielli di famiglia sarà il passggio conclusivo della riabilitazione di De Laurentiis, abile come pochi nel gestire con i giusti pesi le eventuali operazioni in uscita.
    L'entusiasmo popolare resta la solita variabile impazzita. Lo strapotere azzurro in campionato sta alimentando aspettative per la Champions League che ad inizio stagione sarebbero parse totalmente folli. Da un punto di vista un po' più realistico, la gloria che il Napoli dovrebbe cercare in Europa appartiene soprattutto al bottino garantito dal passaggio di ogni turno: l'approdo agli ottavi e poi alle semifinali produrrebbe introiti per 23 milioni di euro (botteghino a parte). Il senso della realtà, al momento, non suggerisce altre speranze. La Provvidenza non ha limiti, ma è meglio coltivare un sogno alla volta.

(Fa. Cas.)

   

 

    Impegnati nell'eterna ricerca di una anti-Napoli degna del ruolo, i tifosi hanno dimenticato di individuare l'unica variabile umana, ineluttabile quanto ovvia: la  flessione emotiva. Un avversario subdolo e sfuggente, piazzato sul rettangolo verde del Picco di La Spezia, ostile agli azzurri quanto la remissiva tattica dei padroni di casa, umili interpreti dell'antico adagio: primo, non prenderle. Il risultato del primo tempo, uno zero a zero privo di grandi emozioni, resta più significativo del risultato finale, che aggiunge enfasi ala cavalcata azzurra, ma nasconde l'episodicità e gli errori marchiani che -nella ripresa-  hanno spalancato al Napoli le porte della vittoria.
   Intendiamoci, nessun campanello di allarme risuona nello spogliatoio di Spalletti. Ma regolare i quart'ultimi in classifica col piglio della capolista che chiude subito i conti sarebbe stata la minima aspettativa, conoscendo potenzialità e padronanza degli azzurri. Invece, la squadra che torna da La Spezia con un vantaggio potenzialmente in crescita è ancora in attesa della piena forma di alcuni cardini, come Zielinski, Anguissa e Lozano. All'unica costante, la pervicace cattiveria di Osimhen, oggi si accompagnano le fiammate di Kvaratskhelia, che ritrova i suoi spunti più felici senza andare in gol. Insomma, una vittoria limpida, ma dai toni dimessi. Favorita -se non determinata- da due topiche spezzine: l'igenuo mani di Reca che ha concesso il vantaggio al Napoli e la goffa uscita di Dragowski che ha consentito ad Osimhen il comodo raddoppio di testa.
    La gestione emotiva dell'assolo azzurro resta, insomma, l'unico avversario da contrastare nei prossimi mesi. "Ci sono dei momenti in cui o ci si accontenta o si raddoppia. Noi dobbiamo giocare al raddoppio" : Spalletti ha capito l'antifona e può intervenire sfruttando le alternative di una rosa ampia. Sottrarre sicurezza a chi si ritiene inamovibile e coltivare le motivazioni dei subentranti è la strada più naturale per mantenere alta l'asticella delle motivazioni. Perchè c'è ancora da divertirsi, sfizi da Champions a parte.

(Fa.Cas.)

 

 

 

    Quel 75% di possesso palla, irridente come la superiorità azzurra, dice molte cose. Innanzitutto, che il Napoli sa tornare se stesso quando è il momento di perseguire l'Obiettivo. Riaccendere il motore non è un problema, comandare il gioco nemmeno. Ma dice ancora, accoppiato ai 47 minuti di attesa prima del vantaggio, che il peso specifico di Kvaratskhelia è più grande di quanto immaginiamo. In sua assenza, i surrogati funzionano poco e male, il Napoli finalizza meno e difetta in fantasia. E la Salernitana c'entra ben poco: tra il finto esonero di Nicola e la caduta di autostima di una squadra in crisi di identità, poteva opporre la sola forza del nervi: la timida barriera dei deboli, destinata a crollare alla prima distrazione. Un destino già scritto per gli indiavolati dell'Arechi, eterni sostenitori di una rivalità senza presupposti storici, che Napoli tratta con la strafottenza che merita.
    I tiranni azzurri non lasciano spazio alle speranze di chi arranca alle spalle. Ed è cosi' che a far notizia restano solo le posizioni di Spalletti, in equilibrio (instabile) fra il turnover da record che è costato la coppa Italia e l'ostinazione con cui mantiene in campo i titolari fino all'ottantaseiesimo. La pertinacia nel rivendicare il controllo personale su tutto, ricorrendo all'eccesso come estrema espressione di comando è un timbro di vanità concesso a Spalletti da una classifica superba. Eppure, giocarsi anche la Coppa Italia sarebbe stato un lusso sostenibile: se siamo maestri di dietrologia da bar un valido motivo ci sarà, di fronte al solito, improbabile suicidio.
     I cinquanta punti del girone d'andata sanciscono la dittatura azzurra, ma appaiono perfino uno spreco, nella stagione che non riesce a vivere di sane rivalità. La Juventus implode nelle sue maldestre alchimie. il Milan si ferma, l'Inter ruggissce, ma da lontano. Napoli resta immersa nelle sue scaramanzie. Non c'è molto altro da fare, nella superba cavalcata che può avere un'unica avversaria: la presunzione di aver già vinto.

(Fa.Cas.)

 

    La serata da raccontare ai nipoti è la storia di un massacro. Seppellita da cinque gol e dalla solita coda di critiche che accompagnano -con regolarità assoluta- le imbelli capitolazioni di Allegri, la Juve è un pugile che non si tiene sulle gambe. Lo scontro è impari, il Napoli, tornato sè stesso, è inesorabile. Ma la misura della capitolazione Juventina non è solo nella cronaca: ha inizio nello sprezzo dei calcoli di comodo con cui il Napoli avrebbe potuto affrontare la partita. Con sette punti di vantaggio, un pareggio avrebbe salvaguardato classifica ed ambizioni azzurre senza vanificare gli effetti della striscia bianconera, un filotto di otto vittorie. Uscire indenni dal San Paolo era una ipotesi più che plausibile, per  bianconeri. Ma la superbia azzurra non conosce pietà nè speculazioni.
    La cavalcata del Napoli è accompagnata da una magia che esula dalla forma dei singoli ed esalta il lavoro di Spalletti ed il peso specifico di alcuni giocatori. Perchè gli elementi che ancora ricercano la condizione migliore (Politano, Anguissa, Zielinski, Rahmani, Lozano) rendono perfettibile un collettivo già straripante. Lo stato di grazia di un prepotente Osimhen e le capacità di Lobotka marcano da soli una differenza decisiva, volendo tacere sulle potenzialità di Kvaratskhelia, a cui è ragionevolmente difficile porre limiti di miglioramento. Il Napoli è al comando ma appare una realtà ancora in divenire, tra chi si è imposto e chi scalpita in silenzio. E' nella vasta scelta dei titolari la differenza con la grande bellezza dell'era-Sarri, puntualmente vittima di una consunzione che prosciugava le risorse dei soliti noti nei momenti topici della stagione.
    Nei giochi di scaramenzia, oggi il tifoso fatica perfino a trovare l'anti-Napoli. La maturità con il quale la gente affronta misuratamente il sogno tricolore è ormai soltanto legata alla atavica diffidenza verso il Sistema, più che ai timori per un'avversaria di pari livello. Dal Maradona, l'unica lezione: la superiorità non ammette repliche. Da nessuno.

(Fa.Cas.)

 

    Che lo stop mondiale fosse una variabile misteriosa era un fatto assodato. Ciò che emerge in questi giorni è l'oggettiva difficoltà a gestirlo e programmarlo, viste le condizioni in cui il Napoli capolista si è ripresentato sotto i riflettori del campionato. La sconfitta di Milano poteva sommare motivazioni accettabili e pesanti: la determinazione di un'Inter all'ultima spiaggia, l'oggettiva validità della rosa nerazzurra, l'ostilità di un ambiente inferocito. La vittoria di Genova garantisce tre punti essenziali, ma rimarca crepe strutturali ed un ritardo di preparazione che coinvolge gran parte della squadra. Il Napoli si è aggrappato alla concretezza di Osimhen, ma non è stato capace - nonostante la superiorità numerica- di chiudere l'incontro con una tempistica rassicurante. Il rigore di Elmes, opaco come e più dei suoi compagni, è solo il sigillo del ritorno alla vittoria. Il Napoli lascia a Marassi il ricordo di un possesso palla ordinato, ma rincorre ancora la bella identità smarrita.
    La maturità evocata da Spalletti nel dopogara può rimandare alla consapevolezza con cui il Napoli ha gestito la partita, ma troppi elementi sono lontani dalla forma migliore: Anguissa e Lobotka hanno mostrato sensibili prograssi rispetto a Milano, mentre Kvaratskhelia corre il rischio di diventare un caso proprio prima del big match con la Juve, nonostante le belle (ed improbabili) parole spese dal tecnico, che affronta i microfoni col piglio polemico di chi fronteggia le domande su momento difficile e fin troppo scomodo da spiegare.
    L'irritazione di Spalletti ha effetti controproducenti: sottolinea gli imbarazzi di una ripartenza discutibile, sottrae tranquillità nel momento in cui occorre calma e senso della realltà. Nella querelle sulla scelta del rigorista (il tecnico avevo scelto Kvaratskhelia, ma difende i giocatori che hanno deciso diversamente) Spalletti raggiunge un picco di ira gratuito e francamente evitabile. Non è schiumando rabbia che si progettano sgambetti alle vecchie signore.

(Fa.Cas)

    Un capitombolo che aspettavano tutti. Annichilito dalla partenza perentosia del Napoli, il resto d'Italia aveva fatto ricorso ad ogni sorta di cerimoniale -dalla cabala alla più ruspante jettatura- per propiziare la prima sconfitta azzurra. Lo schieramento di occhi secchi ha steso il Napoli, molto più dell'unica schioppettata dell'Inter, modesta nelle intenzioni tattiche ma molto concreta nel saper chiudere i conti. Tra le mani dei tifosi restano i cinque punti di rassicurante vantaggio e -quindi-  la lucidità di un sereno senno di poi. Troppa la differenza con i normali standard, il vero Napoli non era a San Siro.
     La sconfitta può starci, e si sapeva. Ma ciò che fa rabbia è il difetto di programmazione, l'unico elemento davvero pianificabile dopo un mese e mezzo di pausa. Sotto ritmo e sottotono, la squadra è arrivata al giorno del giudizio senza giocatori in forma accettabile: una sequela di insufficienze hanno prodotto una prestazione imbelle e in grave difetto di agonismo proprio nella serata in cui occorreva mettere un punto.  Nullo nelle verticalizzazioni e senza finalizzare (un solo tiro in posrta), il Napoli ha ruminato gioco senza alcun costrutto, molle nelle gambe ed intimidito da entrate proditorie tollerate dal milanese Sozza senza un accettabile perchè.
     Insomma, la trasfigurazioneè è tale da insinuare il sospetto che il Napoli abbia sottovalutato l'ostacolo. O che la presunzione abbia appannato il senso della realtà. In tutti i casi, la squadra puo' ripartire dalle sicurezze maturate nelle prime quindici giornate: è una serenità poggiata sulla concretezza e sulle capacità di Spalletti, un tipo a cui deve essere costato molto, nel dopogara, fare buon viso a un gioco troppo cattivo per essere tollerato. La tempesta emotiva che sta affrontando la squadra è molto più di una banale sveglia. La resurrezione a Genova, fra soli tre giorni.

(Fa.Cas.)
 

    Ora che c'è una lunga pausa, Spalletti può lasciarsi andare. Il suo -dice- è un gruppo di marziani, per rendimento e disponibilità. Un atto dovuto, certo, ma anche il segnale evidente che tutto gira per il verso giusto. E' un circolo virtuoso che esalta sè stesso ed allarga potenzialità già eccitanti. Lo stato di grazia è una coltre che ricopre ricordi scomodi, annulla le piccole insofferenze e soffoca i malcontenti più umani. I silenziosi rincalzi non battono ciglio, immolandosi come martiri per la sacra causa, mentre qualcuno è perfino passato dall'acidità social all'esaltazione di un gruppo-famiglia democratico e vincente. L'estasi si dopa da sola, ma poco importa: è proprio lì la chiave di molti successi.
    Sui potenziali insuccessi, inevce, si sono accaniti in molti. Perdere un sol punto in questo ruolino di marcia avrebbe aperto crepe simboliche e potenzialmente devastanti, così come qualcuno persevera nell'evocare (od invocare) i danni della pausa mondiale, come se la penalizzazione calasse solo a sud del Garigliano o Spalletti non fosse in grado di gestire partenze o ripartenze, specialità nelle quali -peraltro- sambra anche eccellere. I soli cinque giocatori che il Napoli presterà all'imminente kermesse mondiale appaiono -in realtà- un punto a favore rispetto agli scenari altrui. Questo è quanto.
      La verità è che anche nell'unica sconfitta (ad Anfield) e nei piccoli passaggi a vuoto (come il black-out finale con l'Udinese) è facile cogliere oscillazioni di concentrazione più che veri difetti strutturali. Negarlo, sarebbe applicare una forzatura da incompetenti. Il Napoli del 2023, anzi, ripartirà da tre certezze assenti la scorsa estate: la definitiva consacrazione di Osimhen, una gazzella inesorabile,  capace di turbare i tempi di gioco di qualsiasi difesa, la concreta affidabilità di Kim, il valore assoluto di Kvaratskhelia, in grado di giustificare un sogno negato per trent'anni. Lavorare sui contratti è l'investimento più intelligente in un fine anno carico di perplessità. In Pianura Padana.

(Fa.Cas)
 

   


 

    L'unico problema è la scaramanzia. Perchè di questo Napoli non si può discutere la forza, l'ambizione, la sublime arroganza con cui gestisce le dinamiche della partita per poi decidere quando affondare, colpire e poi amministrare il gioco. E' una superiorità che non conosce pause, concedendo agli azzurri l'eccezione di Anfield Road, un passaggio a cui mancava l'elemento essenziale: l'adrenalina. Una sconfitta per eccesso di sufficienza che non può far testo e non interviene nelle sicurezze acquisite. Il profilo basso del tifoso non è un atto di maturità. E' un sentimento più sottile. E' un modo per ricordare la memoria di furti, ingiustizie e misteri dei tempi andati. Napoli non dimentica, non crediate che il passato non esista più. Il debito non è estinto.
    Il Napoli semina messaggi espliciti, quattro vittorie in trasferta con le rivali più accreditate, nove successi di fila, la vittoria della consacrazione senza il suo uomo di copertina. La seconda in classifica è a sei lunghezze e prima della famigerata pausa per i mondiali restano solo due impegni in casa con Empoli ed Udinese. Il paragone può essere troppo impegnativo, ma nemmeno all'epoca di Maradona e degli scudetti vinti era maturata una tale superiorità in classifica, al netto dei tre punti in palio oggi. Risultati che poggiano sulle sicurezze di un organico che si scopre molto solido già in difesa: il clamore per la macchina da gol ha coperto i meriti di Kim (capace di aver annullato ogni rimpianto per KK) e di Oliveira, l'uomo affidabile ed arcigno che mancava ormai da troppo.
    Intendiamoci: la fuga azzurra si spiega, ovviamente, anche con i demeriti altrui. Le pretendenti hanno più deluso che promesso: resterebbero a galla soltanto le aspettative del Milan, che dopo la sconfitta di Torino ha piegato lo Spezia soltanto a due minuti alla fine, mentre il derby d'Italia potrebbe affondare definitivamente una nobile sorella. L'atmosfera è surreale già a novembre, perchè Napoli fa il vuoto, ma oggi, sulla prima pagina di Tuttosport, tutto ciò non è mai accaduto. Problemi loro, il Napoli toglie il disturbo. Saluti e baci.

(Fa.Cas.)
  


   
   
S
in prisa, sin pausa, avrebbe detto un vecchio amico spagnolo. Il Sassuolo non ha tempo di ragionare: tramortito già al 4', è tenuto sempre fuori da una partita mai iniziata davvero. Lo stato di grazia del Napoli ha un assestamento prolungato, non soffre di intervalli o di avvii lenti. E' una armonia perfettibile solo in teoria, poichè la pratica non lascia perplessità: gli ingranaggi girano precisi ovunque, con la sottile presunzione dei vincenti. "Abbiamo concesso troppo": Spalletti si precipta a trovare sbavature che sostengano l'attenzione, ma in una gara dalle dinamiche imposte dopo pochi minuti, le disattenzioni in difesa appaiono più eccessi di confidenza che campanelli di allarme. Non è  umano conservare la stessa applicazione con i tre punti già in ghiaccio ed il pubblico in costante delirio.
    I pericoli, piuttosto, sono nascosti negli eccessi. Paragoni troppo affrettati con i campioni di un tempo, parallelismi forzati con le giocate di Maradona, pesi specifici aumentati oltre il verosimile. Che il popolo azzurro guardi al primato con disincanto e senza pressioni è un fatto, in realtà, ancora da appurare in pieno, poichè la maturità del pubblico viene sancita solo dalle prime delusioni. Nei confronti delle quali, occorrerà semplicemente farsi trovare preparati. E' la consapevolezza di Spalletti che sa di dover azzannare chi, presentando il successo come un diritto acquisito, getta le basi per contraccolpi devastanti.
    La partita a Liverpool resta un crocevia per l’immagine ed il portafoglio. La differenza con le fatiche supplementari in Europa Legue è abissale. Che l’Europa sia un gioco che possa valere la candela che illumini le speranza scudetto resta un dilemma eterno, ma ciò che si raccoglie lungo la strada ha il suo sicuro peso: la qualificazione agli ottavi, in sé, porta nove milioni e seicentomila euro, l’eventuale accesso ai quarti (magari grazie ad un sorteggio da primi del girone) un milione in più, premi partita a parte. Ed ancora: quanto varrebbe nei cuori azzurri una prestazione epica ad Anfield Road? La pausa per i Mondiali sposta gli equilibri e le soglie di fatica: in questo scorcio, la Champions è una priorità assoluta. La prossimità con la gara a Bergamo (il 5 novembre) resta l’unica variabile scomoda tra mani di Spalletti prima che il campionato si prenda la sua lunga, temutissima pausa.

(Fa.Cas.)
 

   

    Il primato è una via lastricata di imprevisti, patemi, avversità. Il merito sta nel superarli senza pagare pegno. Col Bologna è andata bene, tre punti e qualche consapevolezza in più. Intanto, l'intercambiabilità dei singoli è un concetto relativo: gli azzurri soffrono -come era prevedibile- della mancanza di Anguissa e Rahmani. Ndombele ha recuperato fiato e smalto, ma non garantisce il rendimento di Zambo, mentre Jesus (il gol, importantissimo, non interviene sul giudizio di fondo) riesce ad imporsi più per fisico che per tecnica, seminando qualche insicurezza di troppo. Il punto è che la vetta non consente errori o passaggi a vuoto: l'errore singolo può diventare determinante, a volte fatale. A livelli di eccellenza, chi sbaglia il dettaglio è perduto.
    Ecco perchè è importante non perdere pezzi per strada. La gestione degli impegni è un affare da affrontare con estremo cinismo. Il sovraccarico non risparmia nessuno, gli infortuni costano molto caro in termini di assenze. Una pianificazione lucida del turnover non dovrebbe ammettere eccezioni. Perdere Lobotka, Kvaratskelia, Di Lorenzo o Kim -tanto per citare chi è stato risparmiato di meno- significherebbe esporre la squadra a flessioni di rendimento probabilmente fatali. A Spalletti l'ingrato compito di distribuire i carichi, ai tifosi l'intelligenza di capirne la necessità. E' una questione prioritaria, a monte di qualsiasi pentimento a danno avvenuto.
    Le riflessioni finali vanno a due singoli. Le prime coinvolgono Meret, ormai destinato ad una stagione di tempeste emotive. La verità, volendo usare una logica cinica ma necessaria, è che il Napoli -come qualsiasi squadra in lotta per lo titolo- non può permettersi un portiere ancora sulla via della maturazione. Sembra una evidenza perfino banale, oggi. Ma non lo era a luglio: probabilmente, si tratta dell'unica leggerezza di una gestione virtuosa che non poteva immaginare gli azzurri leader nella corsa allo scudetto già ad ottobre. Agli antipodi emotivi, Osimhen firma la vittoria col furore dei vincenti. Ancora una volta, subentra con un impeto contagioso e determinante. La frenesia è quasi infantile, ma a suon di gol non sono ammesse discussioni.

(Fa.Cas)
   



 
C
he l'ultimo posto della Cremonese fosse il rassicurante viatico della domenica è un fatto scontato. Probabilmente troppo scontato. E' la lettura più logica che possiamo dare al poker gradasso ed un po' falso del Napoli capolista. Qualche patema, molta fatica ed un pizzico di timore hanno accompagnato un Napoli forse troppo sicuro di sé, nella ricerca dell'alchimia perfetta che consenta un cammino tranquillo in Italia ed in Europa, senza inciampi fatali. Spalletti ricorda la necessità di imprimere ritmi vantaggiosi contro avversari alla portata, ma aggiunge alla formula un'altra variabile dispendiosa. La verità è che la serie A resta un affare complicato e pieno di insidie anche in casa del fanalino di coda, perchè tra infortuni, stanchezza ed oscillazioni di forma e concentrazione, giocare ogni tre giorni diventa un rebus dove ogni soluzione pare legittima ed al tempo stesso opinabile.
      Il poker della capolista solitaria è da copertina, ma il rendimento di diversi giocatori è sotto gli ultimi livelli di eccellenza: Politano, Raspadori ed Anguissa sono parsi meno brillanti del solito mentre Kvara riesce a determinare il risultato con tre-quattro spunti, anche nel giorno in cui a tratti è sembrato estraneo alla manovra.  Il possesso palla, superiore al settanta per cento, assicura il controllo della gara e resta un riscontro significativo, assieme alla varietà di un reparto offensivo in cui si fa fatica ad individuare seconde o terze linee. E' farina del sacco di Spalletti: nessun giocatore sembra ai margini di un progetto che finirà col valorizzare tutti, giovani italiani compresi.
    Nel frattempo, la classifica di inizio ottobre fornisce i primi responsi significativi. Atalanta ed Udinese sono le mine vaganti della stagione, mentre gli affanni di Inter e Juventus, che già accusano ritardi pesanti dal Napoli capolista, sanciscono un verdetto ovvio: fino alla fine, non sarà possibile sbagliare oltre. E non è un vantaggio di poco conto, nella estenuante gestione di risorse che ci porterà al traguardo finale.

(Fa. Cas.)

    Benvenuta normalità. Il Napoli riscopre il piacere della vittoria tranquilla con un avversario alla propria portata. Una calma che è il preludio a traguardi importanti, senza grossi patemi e domande irrisolte. Fieno in cascina e risparmio di energie: la formula vincente troppo spesso smarrita per la strada. Certo, due gol in dieci minuti hanno aperto il comodo scenario della gestione, ma riuscire a padroneggiare il vantaggio non è affare da poco, specie coi ragazzi di Juric. La festa del Maradona  è proseguita con serenità fino al novantesimo. Molte certezze e pochi dubbi nei pensieri del tifoso azzurro, passato dalle perplessità storiche alle speranze fondate nel breve volgere di un mese.
    La grande differenza con le passate stagioni (compresa l'ultima, pure iniziata con un avvio bruciante) è che la squadra non sembra soffrire di potenziali punti deboli destinati fatalmente a falciare le aspettative di rendimento. In realtà - a volerla dire tutta- le valutazioni di inizio stagione sono state falsate dal pessimismo di alcuni opinionisti -autorevoli ma alieni dalla realtà napoletana- che hanno sovrastimato i danni della partenza di Koulibaly, Mertens ed Insigne, dimenticandosi (o meglio: non sapendo) del loro limitato apporto per limiti di forma, di presenza o di impiego, nei successi della stagione appena terminata. La campagna acquisti indovinata ed un apprezzabile stato di forma hanno semplicemente dato seguito ad un progetto già imbastito, nel quale -ed è questo l'obiettivo dialettico di Spalletti- ad imporsi è la versatilità dell'intero gruppo, più che la qualità dei suoi cardini.
    E così, mentre il tecnico enfatizza, con le sue insofferenza alle critiche, l'incuranza verso il concetto di titolarità, il tifoso apprezza l'interscambio dei giocatori e le potenzialità di un organico senza falle. Questo circolo virtuoso oggi ha prodotto il primo posto e una formidabile iniezione di entusiasmo. Spina dorsale, formazione tipo? Nell'era del post Covid e dei cinque cambi, sono altri due concetti inutili che vanno a farsi benedire. Se il calcio è davvero cambiato (e qualche sana perplessità ci resta) , ne avremo prova solo a inizio giugno.

(Fa.Cas.)

   
 


    L'andamento è ciclico, l'angoscia identica. Il Napoli torna a misurarsi con le dinamiche da Champions: turnover ed alternanze sono un un obbligo, dubbi e sofferenze gli effetti collaterali, temuti ed inevitabili. Curiosamente l'ambiente sottovaluta il prezzo della gloria, ma è solo per l'entusiasmo di inizio stagione. Perchè il problema è noto, i passi falsi con le piccole sono il cruccio atavico costato scudetti e qualificazioni europee. Spalletti non si sottrae all'obbligo di alternanza (come potrebbe?) e diventa il parafulmine obbligato di lacune che non dipendono da lui. Si, perchè le prime alternative tra le sue mani si chiamano Ndombele ed Elmas: il passo indietro è una infantile ovvietà.
   Ed è così che il buon Luciano mette di nuovo la firma su una formazione sconvolta. Se lo Spezia figura meglio del Liverpool è semplicemente perchè il Napoli non è più il Napoli. La capacità di costruzione di Ndombelè è così improbabile da non provarci nemmeno: tocca al piede di Rahmani saltare con il lancio lungo un centrocampo asfittico. Già, perchè Anguissa ramazza come sa, ma non ha le stimmate del playmaker, mentre Elmas è l'elegante confusionario di sempre, prezzemolino di ogni minestra scipida, ormai al quarto anno di promesse mai mantenute ed ancora sostenute da uno Spalletti stranamente innamorato. Basta aggiungere l'assenza di Osimhen per azzerare ogni verticalizzazione: il Napoli affoga in venti metri di densità spezzina. Ne fa le spese Raspadori, chiamato per la seconda volta a finalizzare il gioco che non c'è: il primo tempo è la cronaca di un disastro annunciato e già visto col Lecce.
    Un mano divina ha sciolto le angosce al minuto ottantanove, ma questo nulla toglie alla sostanza. Più che sul ritorno di Demme, le preoccupazioni si addensano su Ndombele, un oggetto rotondo e misterioso alla ricerca di una forma che evidentemente manca da alcuni anni. Il suo arrivo ha lanciato il Napoli nel lotto delle pretendenti al titolo, ma il campo solleva molte perplessità. Perchè richiamare in campo i titolari è possibile, ma pretendere sempre il miracolo lo sarà un po' meno.

(Fa.Cas.)

 

    L'unica cosa certa è l'assenza di certezze. Il Napoli prosegue nel suo alterno percorso di crescita, e lo fa nella maniera più difficile a sperarsi dopo le perplessità di mercoledì scorso: recupera e ribalta (in trasferta) una partita nata male contro la Lazio di Sarri, il più scomodo degli paragoni quando le perplessità aleggiano su un tecnico in azzurro. Piglio, personalità e concretezza della squadra vincente sono i valori che spiegano un entusiasmo rigenerato. Ma al tifoso non resta che liberarsi dai giudizi istintivi e sforzarsi di aspettare. Ciò che fa lo stesso Spalletti, quando dichiara di contrappone alle sue alte aspettative l'incapacità di non poter garantire alcunchè. Ossimori difficili da digerire, quando la gente è lecitamente alla caccia di qualche certezza a cui aggrapparsi.
    Ma se rendimento e risultati oscillano, su qualche singolo le considerazioni sono fuori di dubbio. Impossibile ignorare l'importanza di Lobotka, unico elemento ad oggi imprescindibile quando si tratta di liberarsi dal pressing alto ed di impostare geometrie di ripartenza. Solide le speranze riposte in Kim, esuberante in difesa ed inesorabile cecchino sui cross alti. Un tipo sul quale lo stesso Spalletti si sporge ben oltre gli apprezzamenti di prammatica o gli incoraggiamenti di cui non ha alcun bisogno. Sugli scudi, la concretezza di Kvaratsckhelia, arrivato come  (incerto) dribblomane e diventato un flagello per potenza e precisione nelle conclusioni a rete. Il resto della truppa conserva standard alti (Di Lorenzo, Anguissa), dimostra la sua onesta efficacia (Mario Rui, Rahmani, Lozano, Politano) o è solo alla ricerca della forma migliore (Osimhen).
    Zielinski, invece, resta l'eterno oggetto misterioso. Rapisce per la sua tecnica, ma resta fin troppo spesso impalpabile nel suo girovagare nella trequarti avversaria. Un rebus da risolvere in maniera definitiva, soprattutto perchè Raspadori -l'acquisto a cui non si può rinunciare con tanta leggerezza- potrebbe essere la reale alternativa del polacco.
    Primi in classifica -aspettando il completamento del turno- ma i lavori restano ancora in corso. Spalletti si affretta a dichiarare di aver imboccato la strada giusta, ma è facile prevedere ulteriori, logiche fluttuazioni di rendimento. Mercoledì, contro il Liverpool, sono attesi ulteriori segnali. Ma resta la serie A -meglio ricordarlo prima dei giochi- l'obiettivo primario e decisivo: la Champions League è solo una mucca da mungere, fin che si può.

(Fa.Cas.)
   

 

   

 

 
   
Difficile non fare i conti con la delusione, poiché la partita di Firenze penalizza il Napoli in classifica e nell'entusiasmo. Nove reti in due partite avevano lanciato una squadra a trazione anteriore, ma -evidentemente- le dinamiche di gioco risentono ancora di valori in via di assestamento, come sempre accade in avvio di stagione. Nella fase finale della partita, il Napoli si gioca le residue speranze di vittoria sostituendo l'intero reparto offensivo (più Ndombele per un esausto Lobotka): una eloquenza che certifica le difficoltà di una squadra che non ha tirato mai in porta, fatta l'eccezione di due tentativi di Raspadori, unica nota incoraggiante della serata. E se poi lo stesso Spalletti -come ha ammesso in conferenza stampa- si aspettava qualcosa in più, allora non è una forzatura parlare di occasione persa: la Fiorentina, fresca reduce dalle fatiche della Conference League, non doveva rappresentare un ostacolo insormontabile per una squadra riposata e col morale a mille come il Napoli di questi giorni.
    Piazzando Amrabat a uomo su Lobotka, Italiano è riuscito a penalizzare il Napoli prigioniero di una manovra asfittica e mai illuminato dai guizzi dei due giocatori più in ombra fra gli azzurri, Kvaratskhelia e Zielinski. Senza la fantasia dei due uomini in grado di superare l'uomo e con il limitato apporto di un Lozano senza spunti vincenti, lo stesso Osimhen ha reso, ovviamente, molto al di sotto del suo standard. Tutto molto deprimente, non fosse per la buona prova di Raspadori, un tipino concreto che si impegna, corre e punge. Per intenderci, uno di quei giocatori che -in prospettiva- è difficile immaginare in panca.
   Insomma, sarebbe il tempo dell'applicazione sul campo e non delle chiacchiere di mercato. Ma è difficile tenerle a bada, quando il circo mediatico è totalmente assorbito dai rumours su Ronaldo. Il tifoso si appassiona, discute, valuta le ripercussioni economiche e di prospettiva, resta affascinato dal valore aggiunto di un giocatore in grado di fare la differenza. Ma la verità è che resta difficile, al di là degli aspetti tecnici ed finanziari, ignorare l'antipatia verso una operazione che porterebbe in azzurro un giocatore che sfrutta il Napoli solo per la sua visibilità europea, salvo poi dargli un prevedibile benservito tra un anno, quando una nuova opportunità si sarà maturata altrove. Ancora convalescente da seri problemi di cuore, Napoli non ha certo bisogno del re dei mercenari.

(Fa.Cas.)



   
Il miracolo è ormai un fatto compiuto. Difficile trovare nella recente storia azzurra un capovolgimento così repentino -ed in senso positivo- di entusiasmo, aspettative, obiettivi. L'affare Navas è ancora in divenire, ma i quarantamila del Maradona assistono ad una nuova alba azzurra. Questa volta gli eccessi di euforia non c'entrano. L'obiettività è schiacciante, come la superiorità del Napoli contro il Monza: gli ultimi pesanti colpi di mercato si accomodano in panchina, ma il Napoli dispone dell'avversario nel modo in cui vuole, pause o amnesie con le piccole sono un ricordo del passato. Kim e Kvaratskhelia segnano e convincono sempre più. Solo l'ultima casella, quella di Oliveira, resta un valore in via di chiarimento. Ma è solo questo -al momento- l'unico dubbio che separa il mercato del Napoli dalla perfezione.
   I commenti sul nuovo fenomeno azzurro sono variegati e qualche volta bizzarri. Curiose sono le diatribe sul carro dei vincenti, tirato in pista da chi si arroga il privilegio e gli onori per aver sempre appoggiato la linea societaria. E’ una questione che rientra nella dialettica tra tifosi, ma parte dal presupposto un po’ ridicolo che quella linea sia stata sempre coerente negli anni, laddove, invece, i fatti hanno dimostrato che l’immobilismo di De Laurentisis ha lambito quasi il disinteresse per l’emotività del momento, anche (e forse soprattutto) quando si è trattato di puntare in corsa allo scudetto. In questo senso, il boom di presenze al Maradona sancisce un nuovo entusiasmo che esalta la fattività di oggi, ma condanna implicitamente gli atteggiamenti ignavi del recente passato.
    Dagli stadi di Napoli e Roma, arriva la risposta a chi non riusciva a spiegarsi il calo di presenze: strutture fatiscenti e televisione a parte, il cuore del tifoso batte quando un progetto è sostenuto dalla credibilità del mercato e dalle palesi intenzioni della proprietà. L’interessamento a Navas, ciliegina sulla torta azzurra, non copre l’unico imbarazzo, quello legato alla gestione di Meret, l’eterna scommessa concepita male e sostenuta con una coerenza approssimativa. Giunti alla verosimile fine della sua parabola napoletana, in pochi hanno sottolineato l’unica sfortuna davvero decisiva: l’infortunio subito appena giunto in azzurro. Di lì, la necessità di arruolare Ospina, di lì l’introduzione di una staffetta deleteria, che ha privato Alex dell’unico bene necessario per la formazione di un giovane portiere: la continuità. Pur primeggiando per tecnica e stile fra i pali, a Meret è toccato anche il curioso destino di pagare per i limiti di palleggio, un valore perfino sconosciuto ai portieri che hanno scritto la storia italiana: da Zoff a Castellini, da Zenga, a Galli, da Tacconi a Buffon. Quanto valessero sotto pressing, con la palla fra i piedi, non lo sappiamo nemmeno noi…

(Fa.Cas.)

 

  

 
   
"Il Napoli? Servirà sicuramente un po’ di tempo”
. La sentenza di Benitez è solo l’ultima in ordine di tempo e riassume gli umori di una città depressa. Il temuto ridimensionamento azzurro ha radici profonde. Sa ne parla da anni, da quando all’irrisolto concetto di epurazione si è unito quello della rifondazione strutturale, un male necessario da affrontare per questioni di mercato ed ingaggi, più che anagrafiche. Già, perché, la rivoluzione azzurra, partita quest’anno per pura convenzione, è in realtà sancita da tre sole rinunce, per giunta imposte dal (vil) danaro. La partenza di Koulibaly, Insigne e Mertens certifica un progetto nuovo ma anche l’approssimazione con cui la critica affronta i nuovi equilibri: il Napoli è dato per indebolito ma in realtà l’incidenza di Insigne e Mertens sui successi della scorsa stagione è stata -per motivi diversi- assai marginale. Lo stesso Koulibaly lascia Napoli dopo una stagione non all’altezza delle precedenti e penalizzata dalla coppa d’Africa. Tutto sommato, le premesse non sono avvilenti, anzi. E allora?
    L'unica verità è che il Napoli è in crisi di entusiasmo da molto tempo. Gli atteggiamenti di De Laurentiis -impopolari anche perché poco studiati- e le dinamiche economiche a cui il Napoli si piega per una oggettiva questione di sopravvivenza, deprimono una platea prigioniera di un retaggio atavico, per il quale la progressione è legata solo ad investimenti onerosi su giocatori affermati. Una verità sempre meno assoluta, anche per quel che si è visto al San Paolo: da Hamsik a Lavezzi, da Koulibaly a Mertens, le bandiere azzurre sono arrivate a Napoli come illustri carneadi. La competenza compensa i limiti di portafoglio. E’ una evidenza innegabile, ma resta difficile da assimilare quando il tifoso è continuamente mortificato da trattative interminabili e mai risolte con l’autorità economica e di appeal che la piazza meriterebbe. Nel paragone con le squadre in lotta per il titolo, Napoli trasmette un senso impotenza che il tifoso non accetta perché la virtù appaga meno del comando. Questo dislivello emotivo -incautamente ricordato più volte dalla proprietà- resta il peccato mortale agli occhi di chi cerca nel calcio una forma di riscatto e realizzazione. Ne deriva una condanna moralmente ineccepibile.
    La convincente vittoria di Verona è la dimostrazione pratica di tutte queste ipotesi. Il Napoli conferma telaio, consistenza e potenzialità nonostante gli allarmismi sostenuti su una base ormai troppo emotiva. Gli azzurri, ancora in pieno mercato, conservano le qualità del  centrocampo, registrano il buon inserimento di Kim e si godono le giocate di Kvaratskelia, che potrebbe non faticare troppo per superare il rendimento dell'Insigne dell'ultima stagione. L'unica variabile è rappresentata dai tempi di inserimento dei prossimi, probabili acquisti. Perchè lo scatto in avvio campionato resta determinante: la Champions appena conquistata resta il frutto dei 24 punti dopo il via. Una rendita determinante.

(Fa.Cas)

 

 

 

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