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L’allenatore deve essere al tempo stesso maestro, amico e poliziotto.

                (Vujadin Boskov)

 

  Il  tifoso si sfoga

Nuovi allenatori, vecchi risultati

A forza di parlare di tattiche, il ruolo dell'allenatore è diventato sempre piu' determinante. In realtà, sono i giocatori che vanno in campo. I mali di quest'anno partono innanzitutto da loro. Quanto ci vuole a capirlo?

Carlo Onorato - Napoli

 

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    All'ennesima partita della verità, dieci titolari ed un rincalzo della stagione vincente: un sussulto del vecchio orgoglio, ma anche la dichiarazione del fallimento di due tornate di mercato. Chiamato ad eseguire il minimo sindacale, una vittoria contro il terz'ultimo Frosinone, il Napoli riesce nella specialità della casa: mortificare le speranze di una piazza tornata a crederci, giocando male e difendendo peggio. Nella corsa per un posto in Champions, l'unica variabile calcolata male è la regolarità delle pretendenti, che -per il loro stesso ruolo- non possono tenere il passo della squadra leader. E così, mentre si aprono spiragli matematici, la costante è il rendimento azzurro. Le belle parentesi della squadra campione si riducono a una manciata di minuti, come contro il Monza. Al Maradona torna la norma azzurra, fatta di approssimazione, incapacità, inconcludenza.
   Il peggio è che alcuni errori sono gratuiti, dunque facilmente evitabili. Ricorderemo questa ennesima delusione per due errori nati dai piedi del portiere (il primo per un marchiano errore nel passaggio, il secondo per un rinvio frettoloso che ha consegnato la palla agli avversari), inseguendo una costruzione dal basso che semina terrore e non raccoglie benefici. Oltre all'istinto suicida, c'è dell'altro: il Napoli si accende solo negli spunti personali degli esterni alti. La manovra non ha sbocchi centrali se non nei lanci lunghi che premiano l'esuberanza di Osimhen. Tutto finisce li'. Nella mediocrità di un centrocampo incapace di inventare, svetta l'inconcludenza di Zielinski ed Aguissa. Il loro rendimento è uno dei peccati originali della stagione più balorda della storia.
    La fine del campionato è un interminabile conto alla rovescia, poichè è la corsa ad un sontuoso banchetto, quello della Champions del prossimo anno, che vedrà arricchirsi tutti, tranne che il Napoli. Chiamato ad inseguire un pur minimo obiettivo, il tifoso si concentra sui discutibili benefici dell'Europa League, solo perchè raccogliere briciole sembra meglio del digiuno. Lontano dai sogni, la realtà passa per una fase a cui nessuno avrebbe creduto, appena un anno fa. Si chiama rifondazione.

(Fa.Cas.)

 

 

    Il triste destino del tifoso azzurro ha due sole vie: il rimpianto per l'annata buttata via e la rassegnazione per una realtà irrecuperabile. La partita di Monza le imbocca entrambe: quattro gol in trasferta, una mezz'ora da campioni, i numeri di qualche singolo di categoria superiore. Dal versante opposto, la resa al cospetto di una difesa che non tiene. Il primo pallone entrato in area finisce puntuale alle spalle di Meret, davanti agli irriducibii assiepati in curva, encomiabili per passione ma muti per scelta e disperazione. Finirà in festa, ma è difficile darsi pace quando il motore azzurro si accende, gira a mille e dimostra ciò che sa. Un finale dimesso di stagione non si addice alle potenzialità di una squadra mortificata dagli errori strategici fuori dal rettangolo verde.
    Calzona non può sperimentare a vantaggio di chi lo sostituirà. In otto gare si gioca la faccia e sostiene la battaglia Champions fino all'esclusione matematica. Ma è la difesa della legittima dignità, più che una convinta speranza di rivincita. Il Napoli è disperatamente aggrappato alla sua dimensione vincente, non sa riconoscere realtà più dimesse, ma resta sopraffatto dall'evidenza dei numeri. E' questo il mesto copione che attende la città fino al termine di maggio.
   Una lenta agonia che meriterebbe almeno una sferzata, un deciso segnale di discontinuità rispetto ai recenti errori. Napoli sa ritrovare velocemente l'entusiasmo smarrito, ma ciò non sembra rientrare nelle priorità di don Aurelio: l'investitura di Manna a direttore sportivo raccoglie reazioni tiepide e si presta ad interpretazioni ambigue. Il rampante trentaseienne può vestire i panni del cavalier servente quanto quelli del manager della rinascita, ma è onestamente difficile figurarsi oggi scenari di successo in un ruolo che -più di altri- esige esperienza consumata e profondissime radici nel perfido terreno dei rapporti personali. Di certo, la scelta già fatta di un direttore sportivo esclude sia la futura presenza di una figura dirigenziale più apicale, che potrebbe non gradire Manna, sia la certezza del gradimento da parte di un allenatore vincente e totalitario come Conte. Deduzioni poco incoraggianti per chi spera nel riscatto immediato.
    "Abbiamo dimostrato di non meritare la classifica che abbiamo". La chiosa di De Laurentiis pervenuta via tweet contiene un messaggio implicito e raccapricciante: il merito appartiene ancora alla realtà azzurra, nonostante errori, scelte sbagliate e strafalcioni di mercato. La percezione della realtà e dei danni di una gestione improvvida sembra sfuggire ancora oggi a chi regge il timone. Al peggio non c'è mai fine, nemmeno qui.

(Fa.Cas.)

   
  

    Una serena rassegnazione è l'unico conforto nel pomeriggio più disastroso dell'anno. Ormai liberi da ogni emotività, possiamo valutare il Napoli nella sua vera natura. Una squadra vuota, priva di entusiasmo (ed è lo stesso Gasperini a notarlo) perchè consapevole dei limiti strutturali e dei difetti di organico che rendono impossibile qualsiasi traguardo. Primi fra tutti, i disastri di una difesa impresentabile, che al Maradona ha subito più gol di quanti il Napoli ne abbia segnati. La squadra gioca poco e male, finalizza raramente, ma tutto diventa secondario se la difesa non è in grado di reggere appena attaccata. Nella partita della verità, magari da vincere con pazienza ed ostinazione, qualsiasi progetto tattico affonda se ai primi pericoli il Napoli capitola. Primo: non prenderle. Sull'antico adagio si infrange la dignità agonistica di un manipolo di ex-campioni, colpevolmente sconfessati e già destinati all'oblio. Lobotka, Kvara e Di Lorenzo sono le uniche eccezioni su cui poggiare le flebili speranze di rivoluzione.
   La corsa Champions proseguiva con un affanno tale da appannare le valutazioni su un anno nato male ma proseguito ben peggio. Perchè insieme con alcune variabili imponderabili (e probabilmente ingovernabili) come la gestione di Osimhen e l’infortunio di Kvara, tanto per citare gli ultimi accadimenti, la stagione in corso dovrà essere ricordata più per a perseveranza degli errori che non per i danni provocati dai peccati originali. Inammissibile è stato l’indugio nel mantenere Garcia in panchina, cattiva è stata la scelta del pre-pensionato Mazzarri, imprevidente il ritardo del suo allontanamento, intollerabile la gestione dell’affare Zielinski (che si presentava chiaramente nelle sue ripercussioni già in ritiro), scellerata l’ostinazione a non sostituire Kim nemmeno in inverno, letale la logica del mercato di riparazione, che ha portato a Napoli un solo giocatore pronto per l’emergenza in corso (Ngonge, subito infortunatosi), un convalescente di lungo corso (Traorè) e due comprimari (l’umile Mazzocchi e l’invisibile Dendoncker). Una successione sciagurata di insuccessi, di fronte ai quali la scelta di Garcia ed il discutibile mercato estivo cadono, per quanto gravi,  quasi in secondo ordine. Ecco la perseveranza mortale, densa di significati lontani dalla competenza e prossimi alla presunzione che sottraggono credibilità perfino al progetto che ha portato lo scudetto a Napoli.
    Il senno di poi, impietoso, riporta all’abisso di ingenuità con il quale il Napoli è stato affidato prima ad un allenatore fuori dai giochi e poi ad un successore ormai dimenticato dai palcoscenici di serie A. Il profilo di Calzona, eterno secondo ma timoniere di una selezione agli Europei è - a ben pensarci- l’unica figura potenzialmente rampante sulla panchina azzurra. Sono queste le semplici valutazioni soffocate dall’entusiasmo di un popolo che sperava ancora e dal chiacchiericcio sull’ennesimo inciucio all’italiana, quello del caso Acerbi. Una di quelle situazioni in cui importa più il messaggio lanciato alla gente che non la sostanza del verdetto. In assenza della pistola fumante, vince ancora la scaltra negazione della realtà, la rivisitazione dei fatti a misura del colpevole, l’eterna impunità di furbi e potenti. Disastri all'italiana.

(Fa.Cas.)

 

   

    Nell'estenuante via crucis delle delusioni, arriva col Torino la stazione più avvilente, forse la più significativa. Dopo i flebili, ma certi, segnali di ripresa, la squadra non riesce a decollare, a prendersi forza ed ambizioni, oltre ai tre punti vitali per qualsiasi calcolo di (relativa) gloria europea. Nel pantano di una improduttiva mediocrità, si staglia la figura di un solo giocatore, Khvicha Kvaratskhelia, capace di riportare nel passato l'orologio delle emozioni e di ricordarci lucidamente l'importanza del talento del singolo nei successi di un collettivo. Impegnati come siamo nel riconoscere i demeriti di chi ha portato alla disfatta, il valore dei singoli ci appare per definizione  intatto, già dimostrato, resistente al tempo ed alle oscillazioni di forma. E' una suggestione comune, probabilmente la più subdola. Perchè alcune caselle del Napoli campione sono letteralmente vacanti da settembre, nonostante la nostra miope ostinazione a non ammetterlo.
    E non si tratta (solo) della ritrita questione dell'addio di Kim.  Perchè mentre Sanabria completava -in beata solitudine- la lunga evoluzione di una rovesciata a pochi passi da Meret, il centrocampo azzurro non esisteva più, già ormai da inizio partita. Anzi, potremmo dire che quest'anno non è mai esistito, se non nel volenteroso impegno di Lobotka, funzionale solo a ricordarci la possenza di una mediana che non c'è più. Anguissa e Zielinski sono da settembre due fantasmi, i più famosi del Napoli che fu. Figure paranormali si aggirano anche in panca: Cajuste è un oggetto misterioso,  Dendoncker un mistero nemmeno palpabile, mentre Demme è ormai fotografato in costume nelle acque di Marechiaro. Se sul solo Traorè ci sforziamo di concentrare speranze (future), sarebbe anche l'ora di chiedersi: quando su otto centrocampisti ne funziona uno solo, come si fa ad aspettarsi qualcosa di buono? Se due titolari sui tre in mediana non sono in grado di aiutare la squadra, come è possibile finalizzare?
    E' proprio qui che si arrestano le responsabilità di chi guida il Napoli. Qualcuno ha sovraperformato, si dice. Sarà il caso di Anguissa, certo. Qualcun'altro avrà la testa altrove. E' il caso di Zielinski, senz'altro. Ma l'inconsistenza dei ricambi è la più nitida fotografia di un fallimento. Perdere la Champions arrivando sesti è lo scrupolo già dipinto sul faccione di don Aurelio visto ieri al Maradona. Non è finita finché non è finita, ma nel frattempo c'è da impazzire.

(Fa.Cas.)

   

   


 


     Sull'ultima spiaggia, quella di Cagliari, il Napoli lascia le speranze di ritrovare la dignità perduta. Un punto solo, a partita già vinta, è la beffa regalata al popolo azzurro, commovente per dedizione e sostegno ad una squadra imbelle, sconclusionata, totalmente incapace di reagire. Su Calzona infuria la tempesta delle analisi tattiche, ma è impossibile non partire dagli errori dei singoli, poiché è sulla qualità individuale che si poggiano le fondamenta di qualsiasi collettivo vincente. Il Cagliari pareggia all'ultimo respiro per un errore marchiano di Juan Jesus, lo svincolato arrivato a Napoli per rifinire la rosa, riserva per vocazione  obbligata nelle scorse stagioni, ma poi  assurto alla dignità di titolare proprio nell'anno in cui c'è uno scudetto da difendere. E' l'ultimo, risibile capitolo (solo in ordine di tempo, temiamo) della sciagurata gestione dell'addio di Kim e della diabolica perseveranza con la quale De Laurentiis ha ostinatamente lasciato libera la casella di un difensore centrale, giustificando il buco con scuse di comodo fino a qualche giorno fa. Dopo l'ennesimo aborto di riparazione, il conto non ha tardato ad arrivare. Con puntualità svizzera e garantita.
    Che il Napoli non avesse meritato di vincere importa poco o nulla, poiché nella natura del calcio c'è lo spunto del singolo di qualità che rompe gli equilibri. Agli azzurri serviva fermare una deriva, ricavare energie, sicurezze e morale a qualsiasi costo, ritrovare la quadratura col sostengo del tempo e della classifica. La vastità della rosa azzurra e la palese differenza di qualità con quella isolana, avrebbe consentito a Calzona di realizzare cambi esemplari e significativi. Ma alla prima prova in campionato, la decisione più in vista è stata il recupero di Zielinski, che ha finito per confermare sua inutilità pratica: danza elegantemente palla al piede a quaranta metri dalla porta, ma è totalmente assente in fase di rifinitura e conclusione. Confermata dal nuovo tecnico, la linea di centrocampo si contorce in un possesso palla affannoso e inconcludente. E questa l'immagine più raccapricciante di una involuzione completa e, fino ad ora, definitiva.
     Considerati questi presupposti, illudersi serve a ben poco. Il Napoli si è ridotto a vivere alla giornata, sperando nelle flessioni altrui più che nelle proprie forze. Mentre la gente realizza quanto di fortunoso ci sia stato nell'anno dello scudetto, qualcuno si consola sperando che le lezioni di quest'anno gettino le basi per un nuovo domani. Sarebbe bello crederci. Ma l'uomo solo al comando prosegue fiero nella sua fuga dalla realtà.

                                                                                           (F
a.Cas.)

    Stesso numero di panchine, sei punti in meno rispetto a Garcia. La parabola, anzi il declino di Mazzarri si dipinge con numeri drammatici. Tanto più impietosi quanto più si riconosce la diversa tolleranza che Napoli ha donato al vecchio amico di famiglia, rispetto al suo maldestro predecessore. Sì, poichè da un lato a Mazzarri è stato concesso un   intervallo di assestamento più lungo del lecito, dall'altro il ciclo di partite terribili coincise con il suo arrivo ha ritardato il momento dei primi giudizi oggettivi. Come se non bastasse, la presa di coscienza sul nuovo corso è rimasta sospesa per due ulteriori motivi: il sospetto che i giocatori avessero le proprie responsabilità e la rassegnazione all'evidenza di fondo: impossibile trovare un allenatore di valore che accetti la panchina più scomoda d'Italia. Questa folle alchimia ha prodotto una conclusione assurda: se la defenestrazione di Garcia mirava al miglioramento, quella di Mazzarri sarebbe giustificata dall'impossibilità a far peggio.
   La lenta deriva fino al decimo posto ha sofferto anche di qualche equivoco, come la tenuta difensiva ottenuta con la difesa a tre, che da una parte ha ottenuto flebili risultati sulla sola base di una maggiore densità in copertura, dall'altra ha tagliato le gambe ad un attacco prima asfittico e poi totalmente imbelle per carenza numerica. Mazzarri millanta passi avanti perfino nelle delusioni e produce alibi risibili  - è la specialità della casa- mentre la realtà dei fatti offre una sola verità: al Napoli di inizio stagione mancavano un centrale di difesa ed un allenatore all'altezza del compito. E dopo sei mesi, la situazione è rimasta invariata, secondo una diabolica perseveranza di errori ai quali don Aurelio non fornisce motivazioni convincenti. Il centrale? Difficile trovarlo, certo. Ma la difficoltà non giustifica certo l'eterna carenza, specie se è praticamente un anno che il Napoli sa di averne disperato bisogno.
   La pessima gestione dei singoli completa un quadro confuso e poco previdente.  Dopo le polemiche sugli ingaggi e la questione Zielinski (alla fine perso a zero e con un anno di anticipo), l'inopportunità delle scelte concesse Osimhen dimostrano perfino l'assenza di figure in grado di imporre un minimo di disciplina ed autorità. Ecco le visioni di un incubo che invoca una rifondazione totale, l'ennesima assurdità che Napoli non merita, otto mesi appena dopo il trionfo.
    

(Fa.Cas.)

 


              

 

    Sedici cessioni, nove acquisti, un incasso di quasi quarantacinque milioni. C’è da chiedersi quante risposte vere il Verona abbia offerto al Napoli, oltre alle pallide convinzioni di una vittoria all'ultimo respiro. Il pathos dell'incertezza tuttora incombe sul Maradona, greve quanto i mille dubbi che ancora opprimono i tifosi. Perchè i tre punti incoraggiano le velleità in classifica, ma non dissipano nulla: molta sofferenza e troppe pause di gioco in un'altra partita giocata sui nervi e risolta solo dallo spunto del più talentuoso dei singoli. Il Napoli vince ma non può convincere, se manca il centravanti di peso e Cajuste e Anguissa non riescono a marcare alcuna differenza. Nell'impiego di Ngonge, Traorè e del recuperabile Lindstrom ci sono -forse- le risposte che la gente aspetta. I vecchi valori sono ormai un ricordo di cui è necessario sbarazzarsi, poichè solo una nuova formula può restituire al Napoli uno straccio di credibilità.
     Nella strada verso il quarto posto, c’è chi segue un percorso logico, secondo il quale la priorità è stata registrare la fase difensiva, per poi tornare al modulo più usuale. Il ragionamento potrebbe reggere se la tenuta raggiunta oggi non fosse solo il risultato della maggiore densità in difesa, cosa che è assai verosimile supporre. Molto più di quanto non lo sia l’improvvisa rivalutazione di Ostigard, che -per quanto plausibile- getterebbe nel ridicolo  i giudizi “interni” sul difensore che lo scorso anno ha giocato meno di tutti. In un mercato di grandi ambizioni (ma nel quale il Napoli ha finito con un bilancio praticamente nullo), resta disarmante  l’incapacità azzurra di investire rapidamente su nomi di livello superiore. Poiché la rinuncia a Perez è un esempio di saggezza soltanto perchè la fascia di investimento è rimasta su un indice di mediocrità.
    L’altro mistero, quello della gestione di Zielinski, corre il serio rischio di trascinarsi fino alla fine della stagione. Al di là del lato strettamente etico (resta da capire quanto sia intervenuto l’aspetto economico, visto che non conosceremo mai le reali offerte di Inter e Napoli) due cose appaiono certe: l’amore molto labile di Zielinski per i colori azzurri (poiché il differenziale dell’offerta non dovrebbe essere poi così alto) e la gestione approssimativa del rinnovo, perchè, mancando un accordo già ad agosto, il polacco poteva salutare in estate, garantendo almeno al Napoli la cifra della cessione. Sotto questo punto di vista, chi aveva da perderci di più (ossia il Napoli) avrebbe avuto l’onere di affrontare in maniera più decisa la separazione, anziché aspettare ad oltranza e perdere a zero il calciatore. Oggi il Napoli si ritrova con una ventina di milioni in meno e la rinuncia alle prestazioni sportive per l’ultimo anno. Gestione sbagliata a parte, se questo era il grande amore di Zielu per Napoli, forse è anche l’ora che i tifosi imparino qualcosa.

(Fa.Cas.)
 

    Nove assenti e tre titolari in campo con la valigia. Le premesse, oggettive, indicavano un solo scopo: il pareggio. Mazzarri frena l'emorragia di delusioni, ma il suo modulo continua a seminare scontento. Il Napoli appare rinunciatario oltre ogni dubbio, la sensazione di una squadra preoccupata solamente di non prenderle mortifica lo scudetto cucito su petto e lo spirito vincente coltivato con successo per anni. Possiamo tranquillamente ipotizzare che, terminata la coppa d'Africa ed una campagna acquisti quantomeno corposa, il metro di giudizio inevitabilmente cambierà. Terminato il momento di emergenza, Mazzarri non potrà più trincerarsi dietro vecchi alibi e nuove difficoltà. Fare punti, convincere e produrre gioco sarà necessità obbligata. La speranza, al di là dei risultati, sarà quella di non dover scoprire che la scelta del nuovo tecnico sia stata più letale dei danni prodotti dal vecchio. Una eventualità che terrorizza i tifosi e minaccia la cassa di De Laurentiis.
    Dal canto suo, Mazzarri non sembra avvertire la necessità del una vera svolta. Ribadisce i passi avanti del suo gruppo e la rinascita dello spirito di squadra, ma non fa alcun cenno sul bisogno di ritrovare manovra e gol.  Si ricava l'impressione di un uomo solo, che naviga a vista e che di più non può. Ne resta condizionato l'umore del tifoso, che dopo aver perso le vecchie certezze, fronteggia oggi una crisi di entusiasmo che Mazzarri, con i suoi noti limiti noti,  difficilmente riuscirà a spazzare via.
    Sul fronte degli acquisti, la sessione invernale potrebbe aver dato qualche certezza in più. Ngonge è un tipetto sul quale poter puntare, mentre  a Traorè va concesso solo il tempo per ritrovare forma ed efficienza fisica. Il gigante Dendonker -nella sua breve apparizione apparso  imponente e macchinoso- è l'unica vera incognita nel progetto che dovrebbe completarsi con l'arrivo di Perez. Per lui, diciotto milioni di spesa. Sommati a quelli investiti per Natan arriviamo alla cifra (minima) che il Napoli avrebbe dovuto spendere per sostituire Kim. Una lezione che don Aurelio ha pagato profumatamente.

(Fa.Cas.)

 

Dopo processi, ritiri e chiacchiere, è arrivata un'unica conferma, quella più pratica. Rimanere attaccati al carro per la Champions non è un'impresa, basta una vittoria per ritrovare la classifica e motivazioni plausibili. Il resto è assolutamente in alto mare: Mazzarri infarcisce di luoghi comuni le sue dichiarazioni: svolta psicologica, iniezione di fiducia, buona sorte ritrovata. Argomentazioni che possono avere una loro concretezza, ma a la verità è che il Napoli non c'è ancora, oltre alla ostinata volontà di cogliere il successo. Il gioco si ferma ad un ruminante giropalla, al tiro si arriva di rado e per episodi. Facile immaginare che che senza la dietrologia  legata ai tre punti colti all'ultimo respiro, un pareggio avrebbe dato alla medesima gara un significato diametralmente opposto. Altrettanto facile prevedere che il peso specifico della prestazioni di Demme  (terza linea senza prospettive e considerazione) getti nuovi interrogativi sulle scelte umane di inizio stagione. Cose che capitano quando il bandolo della matassa è così invisibile da non poter escludere davvero nulla.
   Del resto, la lotta alla crisi senza esclusioni di colpi e di colpevoli non risparmia più nessuno . Nell’immediata vigilia del derby, più di un quotidiano riferiva come sul filo dell’esonero ci fosse anche Mazzarri, finito sulla panchina azzurra per le stesse colpevoli dinamiche che hanno minato la stagione. Alcune sue scelte, poi, hanno completato la frittata: eliminazione in coppa Italia con la squadra dei rincalzi e le sostituzioni poco lucide col Torino hanno smosso anche la coscienza popolare, stufa di tutto e non disposta più a perdonare. Perché Mazzarri ha fallito sul suo terreno, quello del carattere e della personalità. Si tratta dell’unica certezza su cui i tifosi potevano contare: il marasma più totale ha ingoiato tutto e la gravita del momento non ha nemmeno invitato alcuni protagonisti ad un cauto silenzio. La polemica fra procuratori preoccupa nella misura in cui è (o meglio: dovrebbe essere) tacitamente avallata dai loro assistiti. Possiamo inquadrare la disputa come vogliamo, ma agli occhi del mondo le due bandiere del Napoli (Osimhen e Kvara) sono ai ferri corti. Da Napoli arriva una cartolina sporca e sgualcita. Impossibile a credersi solo pochi mesi fa.
    Nel frattempo, il mercato di riparazione prosegue seguendo sempre lo stesso rigidissimo copione: una sequenza di affari abortiti. Puntualmente sfumato l’arrivo di Dragusin dopo il solito, interminabile, tira e molla che ha visto coinvolto anche Samardzic, il peggiore dei soggetto da trattare, considerata la ridicola telenovela estiva in cui si è ritrovata l’Inter, di solito abituata ad andare per le spicce. Barak ed il fattibile Traorè completano il roster di candidati, mentre la priorità -un centrale difensivo di livello- resta imperativa ed incompiuta. Insomma, in sede di mercato non si vedono concreti segnali di discontinuità con il passato, sebbene le necessità azzurre siano ben note già dopo i primi cigolii di stagione. Illusioni, frustrazioni e chiacchiere: la “new era” era in realtà la nottata da passare. Basta saperlo e riderci su.

(Fa. Cas.)

 

    Alla fine le vere vittime sono sempre li', a penare e disperarsi di fronte all'inverosimile. I tifosi soffrono e non capiscono, restano attoniti di fonte ad uno psicodramma sportivo senza precedenti: uno scudetto gettato nel fango in pochi mesi. Un disonore che Napoli non merita, se la sola colpa è quella di aver dato fiducia a chi avuto la ventura di vincere uno scudetto atteso trent'anni. La squadra a fine partita si avvia verso la curva per raccogliere un perdono impossibile. Fa gruppo sotto i tifosi, ma ogni giocatore annaspa nella sua verità, fatta di presunzione, malcontento, egoismo. Ciò che passerà alla storia è l'incapacità assoluta nel gestire il successo, che è il semplice corollario di una verità dolorosa: la casualità di uno scudetto straordinario, vinto più per la coesistenza di fattori irripetibili che per una pianificazione meramente tecnica. Proprio ciò che aspettava l'altra Italia, quella ostile: il tricolore è l'eccezione che conferma la regola, il meridione non può imporsi con merito costruito e consolidato.
    Il Napoli è in caduta libera, ma stavolta la caccia al colpevole è molto più complicata. Garcia è lontano ed il tempo ha dimostrato che i mali si annidano anche altrove. L'arco delle responsabilità si allarga e delegittima totalmente lo stesso Mazzarri. Il Napoli non gioca meglio di quanto non facesse prima, non ha segnato in cinque delle ultime sei partite, non ha avuto quella reazione emotiva che l'arrivo del nuovo tecnico avrebbe dovuto -almeno- suscitare. Se il calcio seguisse logiche dignitose, a Mazzarri non resterebbero che onorevoli dimissioni. Motivate dalla più nobile delle argomentazioni: il fallimento ha radici estranee alla conduzione tecnica: io posso farci ben poco. Chi potrebbe dargli torto? Kvara è alle prese con un ingaggio inadeguato, Politano ha la testa in Arabia, Osimhen e Anguissa non ci sono, Simeone è sommerso dalla frustrazione, Zielinski corricchia pensando alle nuova destinazione, Rrahmani e Juan Jesus sembrano totalmente inadeguati, Lindstrom e Cajuste dimostrano di valere un quarto di quanto è stato speso per loro. Ed alla truppa si è unito l'ultimo fenomeno, quel Mazzocchi che, cercando di imporsi con la sua unica qualità, l'agonismo, è riuscito a rimanere in campo solo qualche minuto. Esattamente ciò che meriterebbe fino alla fine del campionato.
     Oggi De Laurentiis è un uomo solo, inviso e costretto a spendere nei tempi sbagliati e più di quanto ammettano i suoi stessi principi. E' il tormento perfetto per chi crede che accontentarsi sia l'unico dovere per chi sa vincere davvero.

(Fa.Cas.)

    Le mani di Meret sul punto strappato al Monza. E' quanto resta dell'ennesima delusione al Maradona, un altro passo indietro di una squadra ormai in ginocchio, senza  equilibri e  convinzioni. E' difficile trovare riferimenti certi se altre gerarchie vengono alterate: Lindstrom retrocede a seconda scelta anche dopo Zerbin, il povero Simeone trova sei minuti solo per evitare una esclusione rumorosa, a Zielinski viene preferito Gaetano nel momento decisivo del match. L'effetto Mazzarri, qualora fosse mai esistito, ha preso una deriva confusionaria ed improduttiva che rischia di far apparire il rimedio peggiore del vecchio male. Ormai il Napoli si accende solo sugli spunti personali di Kvara: è il segno di resa di qualsiasi organizzazione tattica per una squadra dominatrice appena qualche mese fa.
    Se ne deve essere accorto perfino don Aurelio, presentatosi in sala stampa per recitare un mea culpa che ruberà i titoli dei giornali e ulteriori attacchi ad un organico fisicamente sulle gambe e mentalmente esausto. A fine gennaio, il presidente ammetterà colpe da cui non può esimersi, ma è facile prevedere -nelle pieghe della sue verità- qualche spruzzo di veleno anche sul rendimento dei singoli, se è vero -come in molti oggi suppongono- che la radice di molti problema si nasconde nei malcontenti atavici di diversi giocatori trattati male e coccolati peggio dopo lo scudetto. Un peccato che il manager De Laurentiis non riconoscerà mai.

    Ed è così che, come una barca in balia delle onde, il Napoli avanza nella tempesta. La fiducia del tifoso procede per inerzia, poche sono le certezze su cui consolidare qualche fondata speranza, oggi poggiata più sull’inconsistenza delle pretendenti alla Champions League che sui valori tecnici della spaurita pattuglia azzurra. L’unica a convincere è l’Inter, che sta avendo gioco facile sull’eterno (e mai convincente) pragmatismo juventino e sulle ripetute amnesie milaniste. Le sorprese del campionato, Bologna in testa, difficilmente reggeranno fino alla fine, anche se l’Atalanta va a corrente alternata e la Roma vince senza giocare a calcio, con recentemente accaduto proprio con gli azzurri. Sul Napoli piovono i denari ricavati dalla cessione di Elmas, l’eterna promessa con un brillante futuro alle spalle, che appare come uno dei pochi colpi davvero assennati, specie per un gruppo che di attendere le consacrazioni non ne può più. Ma la solidità economica non sposta la logica con cui il Napoli progetta gli acquisti: se il monte ingaggi resta la priorità, il mercato potrà riparare ben poco se non qualche speranzella per un jolly pescato al volo.

(Fa. Cas.)
 

    Il ciclo terribile che attendeva Mazzarri al suo ritorno a Napoli è diventato il suo insperato colpo di fortuna. Perchè quel pretesto -oggi- è ottimo per evitare di concentrare anche sul nuovo tecnico le infinite perplessità che gravano sul Napoli uscito devastato dall'Olimpico. La squadra è in caduta libera, mostra tutti i suoi limiti appena si misura con avversari di livello, non offre concreti segnali di ripresa, esprime un gioco peggiore -se possibile- dei tempi di Garcia. Eppure, dopo cinque sconfitte Mazzarri non è (ancora) sul banco degli imputati. La presa di coscienza popolare è rivolta ad altri soggetti, evidentemente. Poichè -ed è questo il punto- il richiamo al carattere non serve poi a molto, se le radici di  un disastro affondano molto più in profondita dell'orgoglio smarrito.
     Ormai è chiaro che le ricadute di un trionfo a cui il Napoli non era abituato sono molteplici e distruttive, quando sono maneggiate senza esperienza vissuta. Lo sono state per don Aurelio, che prima ha concepito la squadra campione come un collettivo non perfettibile e poi ne ha programmato i ricambi (allenatore compreso) con la supponenza di chi crede che pescare i jolly sia solo un gioco da bambini avveduti. Lo sono state per i giocatori, che hanno centrifugato presunzione e inappetenza da successo con una serie di tematiche a sfondo personale (rinnovi, adeguamenti di ingaggio, richiami di mercato) che hanno annullato concentrazione ed agonismo. Insomma. concepire lo scudetto come un punto di arrivo e non come una straordinario trampolino di crescita è il peccato originale a cui tutti, in modi diversi, si sono abbandonati. Perfino una buona fetta di tifosi, la cui euforia è stata proporzionale al ritardo con cui hanno colto i segnali di  una deriva decadente ed autocelebrativa già dal ritiro di Dimaro, teatro di vagheggiamenti di Champions oggi poco meno che ridicoli.
    Il circolo vizioso del  fallimento trita le aspettative del tifoso e le dinamiche economiche. Che valore di mercato avrebbero oggi buona parte degli azzurri, Kvara compreso? E' lecito attendersi offerte oer Osimhen che valgano la sua clausola, fresca di firma? Mentre sono in pericolo le cessioni d'oro, la società progetta il suo solito mercato di riparazione, zeppo di vincoli e limiiti di ingaggio. Ma il Napoli puo' trovare il rilancio solo nel valore in cui ha fallito, quello che non si compra: la competenza.

(Fa.Cas.)
 

    Se pure di convalescenza si tratta, la questione sembra lunga e complicata. Certo, il Napoli dello scorso anno resta un paragone scomodo, forse innaturale, ma gli azzurri ancora stentano a rimettersi in carreggiata. Il segnale di discontinuità col passato viene certamente dal risultato: la vittoria con il Cagliari di Ranieri, grintoso ben oltre la misura, è ossigeno per la classifica e per il morale, mantiene la squadra in piena corsa per la zona Champions, ma non abbatte le vecchie perplessità. In primis, quelle del pacchetto difensivo: la sensazione di affanno è costante ed aver subito una rete appena un minuto dopo il vantaggio di Osimhen è un segnale di inaffidabilità simbolico e significativo, ben oltre il bel gioco che stentiamo a rivedere.
   L'entusiasmo per uno scudetto vinto con enorme merito ostacola, ancora oggi, una valutazione lucida della dimensione difensiva degli azzurri, ma qualche numero può aiutare ad ammettere il disastro in corso. Nella stagione 2012-2013, in cui Mazzarri guidò il Napoli al secondo anno prima di scappare (anche lui, non dimentichiamolo...) gli azzurri chiusero il campionato vantando la seconda difesa del torneo, che alla sedicesima giornata aveva subito già cinque gol in meno di quanti sono al passivo oggi. Bene: i titolarissimi dell'epoca (perchè l'aggettivo era quello) erano scelti tra De Sanctis, Rosati, Campagnaro, Cannavaro, Maggio, Zuniga, Britos, Aronica (ceduto a gennaio), Gamberini, Grava e Rinaudo. Ciò che colpisce non è tanto il fatto che si tratti di nomi lontani da un livello di eccellenza assoluta (escluso forse Maggio, nel giro della Nazionale), quanto piuttosto il paradosso che  la vecchia difesa di Mazzarri appaia - undici anni dopo-  superiore per qualità e rendimento a quella che oggi dovrebbe difendere lo scudetto. Il solo di Lorenzo -anche lui in leggera flessione- non compensa un disvalore inammissibile in questo momento storico. Perfino la memoria di un passato imperfetto mortifica la realtà di oggi.
    Insomma, fino a quando Mazzarri non troverà il bandolo della matassa difensiva sarà impossibile concepire lucidamente possibilità e traguardi della stagione in corso. Perchè lo stato di forma delle stelle azzurre resterà un valore secondario e regolarmente  vanificato da una vulnerabilità insostenibile, a certi livelli. Primo: non prenderle. L'eterno adagio su cui si fonda il calcio inchioda tutti alle proprie responsabilità, anche -e forse soprattutto- se c'è uno scudetto cucito in petto.

(Fa.Cas)
   

    Oltre trent'anni per vincere uno scudetto, quattro mesi per scucirlo dalle maglie. Gli ultimi punti sono stati tolti a Torino,  teatro della vittoria simbolo della cavalcata vincente, ma anche palcoscenico della sconfitta che oggi riassume -altrettanto simbolicamente-  i due perchè di un disastro obbligato. Da un lato, i segnali netti di un collettivo in ripresa riprovano le devastazioni prodotte da Garcia. Dall'altro, il gol preso su una delle rarissime insidie juventine, rimanda al peccato originale della programmazione estiva: l'improvvida gestione dell'addio di Kim e del nuovo assetto difensivo. Se possibile, visto il rendimento di alcuni, la sconfitta con la Juve insinua piuttosto un dubbio ancora più avvilente: che il peso specifico del lavoro di Spalletti sia stato addirittura sottovalutato.  Un motivo in più per concentrare la maledizioni dei tifosi sulle devastazioni del dopo-scudetto: una miscela di presunzione, leggerezze e inutili affari dell'ultim'ora che, anzichè compensare i pochi lati deboli, ha fatto scempio della fortuna capitata tra le mani di De Laurentiis.
    La gente tenta di consolarsi aspettando il ritorno della forma smarrita, una eventualità verosimile -per carità- viste le ultime prestazioni. Ma le coppe italiane ed un piazzamento fra le prime quattro rientrerebbero piuttosto fra gli obiettivi minimi che nessuno avrebbe mai previsto come gli unici raggiungibili già a dicembre. Accontentarsi di poco anzichè lottare per il meglio è quanto Napoli oggi si può permettere, perchè i prodotti delle devastazioni estive, ormai,  restano indelebili. Lo è il funesto ritardo con cui è stato allontanato Garcia, lo sono le  cinque sconfitte  già in archivio, lo è il pacchetto difensivo che ci terrà in ansia fino alla fine, lo è -infine- uno status tecnico provvisorio (e dunque debole) a cui  difficilmente verranno affidate  le redini per programmare, disegnare il progetto, pianificare gli acquisti.
    Le beffe, poi, seguono a ruota delle disgrazie. Perchè  l'amarezza del tifoso, umana e sacrosanta, oggi certificherebbe  la natura perdente di un popolo che non sa accontentarsi. Con le sue esternazioni, Don Aurelio continua a scavare fossati fra sè ed i sentimenti di un popolo che denigra agli occhi del mondo. Nel tentativo di minimizzare i suoi errori, tenta di lanciare messaggi ad effetto. Ma, disprezzando l'identificazione con la sua gente, raccoglie livore, sarcasmo, ostilità. Oltre trent'anni per vincere lo scudetto. Quello della comunicazione resterà per sempre una assoluta utopia.

(Fa.Cas)
 

   

 

     Il calcio fa strani giri, ma conserva un minimo di umanità ed un'ombra di appartenenza. Ecco perchè Mazzarri, prima vincente e fuggitivo, poi deriso e dimenticato, torna come medico di famiglia, una figura che dice molto sulla devastazione prodotta da una gestione improvvida, ma soprattutto sulla dimensione in cui è ancora costretto il Napoli, pochi mesi dopo uno scudetto. Dopo la vittoria a Bergamo, la tentazione di cogliere chiari indizi di ripresa è grande, come il rischio di cadere vittime di facili suggestioni. Perchè la guida tecnica resta un fattore centrale, ma le fondamenta su cui si è poggiata la nuova stagione restano lì,  colpevolmente deboli e vacillanti. Mazzarri richiama a valori simbolici ed essenziali - sacrificio, spirito di squadra, carattere- nel giorno in cui una vittoria della storicamente ostile Bergamo aumenta il peso specifico del successo. E' una somma di premesse concrete che rianima una fiducia ormai spenta già a novembre.
    Colto un grande errore del suo predecessore (ignorare meriti e perchè di uno scudetto storico), Mazzarri si è presentato in maniera opposta: grande attenzione al lavoro di Spalletti, padronanza delle sue dinamiche di gioco, intenzione di riproporle, proseguendo su una strada fatta di umanità e messaggi profondi. Un atto di umiltà che sposa il sentimento popolare nel momento in cui la gente ha capito che il Napoli non è più lo stesso ed ha bisogno di nuove certezze. La partenza di Kim -compensata in maniera approssimativa- ed un mercato poco determinante restano, soprattutto oggi, i peccati originali con cui fare i conti, ogni giorno. Le perplessità su una chiacchierata preparazione atletica e le grane sui rinnovi completano una eredità scomoda che Mazzarri finge di ignorare, poichè questa è la sua vocazione. Per rispetto dell'occasione avuta e per cultura di lavoro. Bastano sette mesi per lasciare il segno.
     Insomma: compensare le carenze con il carattere è la speranza in cui tutti si sono rifugiati. Se vogliamo, è un ritorno a quel passato di lacrime e sangue che vide un Napoli povero ma determinato affacciarsi all'Europa che conta. Ecco perchè Mazzarri non merita, almeno nei primi giorni, giudizi tecnici. Il suo linguaggio è un altro, e Napoli lo sa.

(Fa. Cas.)

 



   

  



   

 

     Nell’eterno paragone con il recente passato, Garcia era atteso da un confronto preciso: fermare Leao e riuscire nell’impresa il cui fallimento ha segnato l’unico insuccesso di Spalletti. Stagioni differenti, momenti psicologici diversi, inerzie di stagione agli antipodi. Ma la delusione è identica. Perchè se Leao è sceso dal palcoscenico, è il Napoli non esserci salito, per un tempo intero. In scena, l'ennesima rappresentazione del nulla: una squadra alla merce' dell'avversario, in ginocchio dopo venti minuti e sommersa dai fischi di un pubblico troppo competente per non riconoscere il fallimento di un progetto nuovo, dopo la scomparsa prematura del vecchio. Negare la delusione, compensando il disastro del primo tempo con la reazione della ripresa è concettualmente sbagliato. Il Napoli ha raddrizzato la partita grazie a due spunti personali, nel momento in cui l'orgoglio di una squadra campione ha potuto molto più degli improbabili disegni di chi la guida.
   Insomma, un pareggio che protrae il purgatorio azzurro, poiché come era facile prevedere, i successi contro Verona e Union Berlino non hanno rimosso le perplessità su lavoro di Garcia. Che i risultati debbano avere un riscontro nella qualità del gioco è una realtà che i napoletani hanno assimilato nei periodi più felici negli ultimi anni. Eppure, per come si sono messe le cose, è facile prevedere il prolungamento di una agonia senza logica, che lascerà lo scrupolo di aver inutilmente perso tempo alla ricerca di una svolta al momento assai improbabile. Il Napoli campione, a fine ottobre è solo quarto a sette punti dalla vetta. Il fallimento è nei fatti.
    E mentre il processo resta nell’eterna attesa di un verdetto, i tifosi stanno vivono la passione per Osimhen con un senso di rassegnazione, forse eccessivo, che allontana Victor molto più di quanto lui stesso (eventualmente) desideri. Alla fine, quello che dispiace davvero, è che una città umorale come Napoli abbia smarrito troppo facilmente il carico di entusiasmo ereditato da una stagione trionfale. Uno scudetto vissuto come l’eccezione ad una regola con poche deroghe, o -peggio ancora- come una anomalia da pagare ad un sistema ineluttabile ed atavicamente ostile. Quanto lo scoramento sia favorito da una gestione improvvida lo stabilirà il tempo. Di certo, c'è una deriva mentale che oggi ha bisogno di un segnale positivo e forte: mollare senza combattere non si può.

(Fa.Cas)


  

   
Può il Napoli battere il Verona per sola superiorità di organico? E' proprio questa la domanda da porsi -lecita ed aderente ai fatti- che potrebbe sottrarre significato ad una vittoria che, in apparenza, risolleva gli azzurri dalle loro disgrazie. Perchè il tre a uno fra due squadre di caratura diversa protrae il tempo dei dubbi e non cancella nulla, tranne che il timore di una deriva irreversibile e senza riparo. Se vogliamo cercare l'unica verità oggettiva emersa sabato, è che la squadra, in sé, ha forza e qualità per reagire in autonomia di idee e di gioco. Il fatidico valore aggiunto trasferito da un allenatore vincente - leva determinante per una economia come quella azzurra- resta (e resterà) ancora un quid irrisolto, sospeso tra le contraddizioni di De Laurentiis che prima sfiducia pubblicamente il tecnico salvo poi garantirgli una fiducia a tempo (per mancanza di alternative) e quelle di Garcia, preoccupato di mostrare i denti ma non la coscienza di chi sente il dovere di fare qualche pubblica ammissione.
   Il risultato è il perpetuarsi di una situazione instabile per sua stessa natura, nei confronti della quale in troppi hanno espresso giudizi trancianti e definitivi per arrendersi velocemente a verità opposte, anche se il Milan venisse affondato tra le mura amiche di Fuorigrotta. Il Napoli ha affrontato questo periodo di crisi accentuando le perplessità che hanno accompagnato il precampionato: l'uomo che nei fatti incarna ogni profilo manageriale, De Laurentiis, si è proposto (o imposto?) anche come il taumaturgo di sè stesso:  il presenzialismo di un presidente come soluzione di una crisi tecnica è una stravaganza che non ha stimolato opinioni che vadano oltre i risvolti macchiettistici. E' l'esatto opposto di una provvedimento lucido e coerente con la gravità del momento.
    Come una barca spinta da una corrente favorevole, il Napoli ha ripreso il suo viaggio. Kvara si conferma nella sua affidabilità, Cajuste si propone (siamo quasi a novembre, ma con i last minute i tempi di inserimento sono questi) come una concreta alternativa di centrocampo. E mentre Meret indovina un sabato memorabile (col Verona!), qualcuno nota che la tenuta difensiva non è esattamente quella dello scorso anno, visto che centrali sono validi, ma non fanno la differenza. Ma qui c'è ormai poco da fare; tra taumaturghi onnipotenti e mister in croce, in difesa ci vorrebbe una mano sola. Quella di San Gennaro.

(Fa.Cas.)
   
    


   

 

    Ecco la svolta, finalmente. Dopo l'Udinese, arriva la controprova: il Napoli ritrova la sua identità smarrita e le prospettive che competono ad una squadra campione. Nella vigilia di una nuova notte di Champions, gli azzurri coccolano di nuovo le loro sicurezze, sfrondate da incomprensioni, equivoci e malcelate intenzioni di protagonismo. Un miracolo avvenuto perchè la narrazione della stagione in corso si è arricchita di un capitolo determinante: il chiarimento tecnico tra Garcia e la squadra. Uno di quei passaggi che riscrivono la storia del campionato,  modificano l'ottica della realtà, stravolgono il senso della vittoria distribuendo meriti opposti,  poiché l'apparente rivincita del tecnico è, nei fatti, il certificato della sua disfatta. Che quello di oggi possa essere il Napoli di Garcia o una reincarnazione di quello spallettiano è una questione futile, a fronte di due realtà primarie: la necessità -avvertita dalla stessa squadra- di influire sulla guida tecnica e la gravissima crisi di gioco e risultati di inizio stagione.
     Oggi è possibile capire  che le angosce di settembre sono  il prodotto obbligato un agosto molle e festaiolo, scientemente affrontato con una calma eccessiva, quotidianamente scandito dagli infortuni e penalizzato da un mercato attendista per sua precisa vocazione, che ha finito  per fornire alla squadra elementi ad oggi (e siamo ad ottobre) non ancora integrati nel progetto. Questa miscela di ostacoli è intervenuta nei risultati e nel giudizio su Garcia ben oltre i suoi riconosciuti demeriti. Perchè ogni disamina sull'inizio della stagione deve nascere da una evidenza indiscutibile: non è possibile concedere all'avversaria più quotata un vantaggio di sette punti a cinque turni dal via. Se ciò è accaduto, esistono colpe gravi e responsabilità precise su cui non è possibile sorvolare per semplice amor di maglia, visto che l'handicap resta una zavorra che rientrerà pesantemente nei conti di fine anno.
     In questa trama, si sono inserite incomprensioni ed equivoci mal gestiti. Resterà ai posteri il capolavoro suicida apparso sul canale social più infantile (ma pur sempre ufficiale), che ha coinvolto l'unico giocatore da conservare isolato da  speculazioni gratuite o pretestuose.  Arriva in queste ore la misura dell'assurdità della vicenda: Osimhen solleva l'intero popolo napoletano da tendenze razziste mai appartenute ad una tifoseria storicamente estranea a certe dinamiche. Comunque finisca la polemica, viene da chiedersi se vale la davvero pena curare una fascia di utenza sensibile ad un umorismo puerile e ben poco educativo. Una questione di immagine, se vogliamo dirla tutta.
    

(Fa.Cas)
   



   


 



    Quando esiste la soggettività di mille opinioni, sono i numeri a fotografare i momenti cruciali: a fine settembre, il Napoli con lo scudetto sulle maglie è a sette punti dalla testa. Un dato impietoso che giustifica la delusione e continua ad autorizzare molte domande scomode. De Laurentiis si affretta a salutare la ripartenza azzurra, ma è solo un banale tentativo di ricondurre la piazza ad atteggiamenti più comprensivi, poichè a fronte di una timida ripresa, il Napoli stringe tra le mani un punto inadeguato agli obiettivi minimi di una squadra campione.
    Garcia si lamenta solo del risultato, ma diventa improbabile affermarlo se nel secondo tempo non si è mai tirato in porta. La minoranza urlante -come lui definisce chi lo contesta- avrà senz'altro notato uno scatto nel rendimento di Anguissa e Lobotka e nella qualità del palleggio del centrocampo, ma il suo prodotto resta un gioco asfittico che non produce finalizzazioni. Anche la prestazione della linea di difesa incoraggia qualche speranza, ma occorrerebbe ricordare che il Bologna ha il terzo peggior attacco ed in avanti è totalmente privo di elementi di spicco. Questa miscela di segnali contrastanti trascinerà ancora gli umori incerti di una piazza in ansia, ma di certo qualcosa non torna. La gente non capisce perchè Raspadori venga inutilmente impiegato sulla fascia destra, cosi come resta un mistero -spiegabile solo con le dinamiche del turnover- il continuo sacrificio di Kvaratskhelia, quando poi i subentranti rendono zero. Infine, il tifoso non può accettare la sostituzione di Osimhen (giustificata col bisogno di risparmiarlo) se gli si evitano soltanto sei minuti più recupero proprio nella fase in cui occorre strappare il successo. Le rimostranze di Victor sono un pessimo spot per lo spogliatoio azzurro, ma nascondono una verità inoppugnabile: se vuoi vincere, forse è il caso di schierare una punta in più.
    Ma la distribuzione delle responsabilità -è naturale- non può coinvolgere solo Garcia. Diversi elementi non sono nelle migliori condizioni, altri restano penalizzati da una preparazione fisica che ha mietuto fin troppe vittime. E' stato il primo, incredibile suicidio di questo infinito pasticcio di fine estate.

(Fa.Cas.)

 

    Da outsiders a Campioni e ritorno, in meno di un anno.  Un viaggio assurdo, possibile solo a Napoli. La squadra esce a pezzi da Marassi: due punti in meno e poche prospettive. Sono rimaste ferme allo "state tranquilli" di De Laurentiis, un atto di fede estivo poggiato su un progetto finalmente chiaro: il nulla. Poiché niente di apprezzabile è successo, nessun valore aggiunto ha migliorato l'organico o rimpiazzato chi è sceso dal carro. Poiché pescare  jolly di mercato non è un'evenienza regolare, anzi. Poiché perdere il timoniere ed il miglior difensore del campionato sposta equilibri vitali anche agli occhi di chi è travolto da un successo improvviso ma conserva un minimo contatto con la realtà.
    Quel nulla poteva avere anche un senso logico, se confermare la quasi totalità dei titolari bastasse per rinnovare i miracoli. Ma il calcio non funziona così. Quando non sono le motivazioni a tradire, deve essere la ricerca della perfettibilità a rinnovare gli stimoli, c'è poco da fare. Il Napoli ha cercato la sua perfezione non investendo per un nuovo difensore il ricavato dalla cessione del vecchio (sarebbe stato il minimo, vivaddio!), dando fiducia ai suoi punti deboli (Østigard e Juan Jesus), ingaggiando improbabili carneadi  pronti praticamente a nulla (Natan e Cajuste), naufragando in estenuanti contrattazioni (Veiga) dimenticando l'urgenza del momento ed il costoso bisogno della concretezza, affidando -in grave ritardo-  le chiavi dello spogliatoio ad una quinta scelta dai fasti assai lontani (Garcia) la cui migliore referenza - e qui sfioriamo il paranormale- è solo il fiuto infallibile di chi la ha scelta. Sembra il progetto di un suicidio. Eppure è quello che resterà di un agosto speso tra suggestioni ridicole e celebrazioni troppo ridondanti. Per alcuni il Napoli è un atto di fede assoluto. Cecità compresa.
     Oggi l'emergenza moltiplica le angosce perchè i punti persi resteranno pesanti come quelli di fine stagione, mentre la barca naviga senza rotta.  Il timoniere non coglie il senso di urgenza, coltiva il suo ego stravolgendo equilibri rodati, non sembra coinvolto dal senso di sciagura imminente che attanaglia una città. Le scelte incomprensibili di Garcia mortificano valori affermati e tracciano un solco profondo con il consenso di un popolo che lo vede in confusione assoluta. Oggi i campioni si smarriscono, domani finiranno col perdere valore di mercato. Magari sarà solo quella la sveglia giusta per la proprietà. Sperando che suoni in tempo.

(Fa.Cas.)

 

La sveglia suona presto. All'alba del campionato, ecco il tonfo. Inatteso, inquietante ed improvviso, ma non per questo meno colpevole. I punti di settembre pesano quanto quelli di maggio, sdoganare la sconfitta come un passaggio della preparazione è possibile, ma non cancella le responsabilità. Poiché le scadenze agonistiche sono compresse, ma la pianificazione resta una fase determinante, soprattutto quando campionato e mercato sono sovrapposti. Pagare dazio è la regola: se sostituisci il miglior difensore del campionato con la sua riserva nella lunga attesa che il nuovo titolare si ambienti, ti esponi al rischio tecnico ed alla gogna mediatica, poiché l'errore è marchiano e, soprattutto, prevedibile anche agli occhi di un bambino. Ma è solo uno dei tanti, in questo incubo di fine estate.
    Il labile confine tra sicurezza e presunzione non fa paura a Garcia. Nonostante i cauti approcci alla nuova stagione e la supponente intenzione di perfezionare molto modificando il minimo, oggi il tecnico si assume la paternità di nuove idee: Lobotka non è più il baricentro dell’universo azzurro, il gioco è frutto di un collettivo senza esclusioni. Nessuno può attaccarlo, ma è certo che l’assunzione di responsabilità è netta. C’è molto carattere nelle decisioni che possono rivelarsi capi di accusa. E' vero: se l’appagamento è il nemico da battere, rimescolare le carte serve. Ma ci vogliono gli assi, evidentemente.
    Per cui, farlo con gli stessi giocatori diventa quasi una impresa. Il Napoli rifiuta il concetto di perfettibilità, non assesta colpi di grazia ad una concorrenza malridotta, piuttosto acquista in colpevole ritardo elementi di ripiego. E così, contro la Lazio i titolari (come col Sassuolo) non cambiano rispetto all’anno scorso. Il promettente Lindstrøm è in panca e dopo l’accorato addio di Lozano, col quale il Napoli risparmia quattro milioni e mezzo di ingaggio. Si ripropone l’accorta politica che segnò l’allontanamento di Mertens ed Insigne. Molto si è ricamato sui conti virtuosi del Napoli scudettato, soprattutto da chi intese la perdita di questi giocatori come un sacrificio tecnico enorme. La realtà, confermata quest’anno dalla cessione del Chuky e dagli attriti con Zielinski, era ed è ben altra: il Napoli, semplicemente, si libera appena può di elementi che non valgono la spesa, a meno di rimodularla al ribasso. Poiché se l’ingaggio ha un ritorno concreto (vedi il dorato rinnovo di Osimhen e le esose prospettive sul contratto di Kvara) la decantata virtù va allegramente a farsi benedire.
   Nel cinismo dei conti, ciò che colpisce è l’impossibilità di dare un giudizio concreto sul mercato azzurro: per un motivo o per l’altro, chi arriva è ancora in rodaggio. Una emergenza di cui sbarazzarsi presto, prestissimo. Contro il Real, una difesa con l’onesto Juan Jesus renderebbe tutto ancora più emozionante, per dirla come l’Avvocato nei giorni bui.

(Fa.Cas.)

 

    E’ la vecchia faccia delle medaglia, il Napoli che esordisce al Maradona. La nuova, quella che la gente avrebbe atteso, non esiste, ma alla prova del campo non c’è attenzione da dedicare al mercato ed ai suoi dolorosi aborti. La squadra che esordisce in casa è oggettivamente più’ debole: manca quel coreano che ha ricordato alla gente che i miracoli esistono. Da carneade al titolo di miglior difensore della A il passo può’ essere breve e l’investimento trascurabile. Lo scouting non è solo lo strumento dorato che ha lanciato il Napoli verso dimensioni finora proibite. E' anche la culla delle nuove suggestioni. Ma in campo c’è il Sassuolo: tre punti da alla portata, per i colpi di code c’è ancora tempo. Fino a venerdì.
    La gara rispetta il copione della partita comoda e senza complicazioni. La squadra gioca, si diverte, già ritrova alcuni meccanismi della stagione scorsa. La sinfonia è ancora in divenire, ma già giganteggiamo Osimhen, Anguissa ed un Di Lorenzo che non finisce di stupire per generosità e rendimento. Insomma, l’approccio tranquillo al primo dei crocevia della stagione, il prossimo impegno interno con una Lazio già alle corde.
    La gente torna a casa, sa di dover affrontare speranze e possibili frustrazioni di mercato fino a venerdì. L'apertura di credito per De Laurentiis resta in piedi, ma ha ricevuto una spallata pesante. Perché alla fine, non si tratta di essere pro o contro: ci sono delle oggettività impossibili da ignorare. Al di là di Cajuste e Natan (scelte di ripiego da attendere, ammesso che il tempo ci sia) la comunicazione di don Aurelio non è stata seguita dalla concretezza dei fatti: l’invito ai tifosi di restare tranquilli resta il suo mantra, ma si fa fatica a capire il perché, fissa al dodici luglio la data per svelare le nuove ambizioni, ma la data resta ignorata, annuncia scadenze settimanali per fare il punto sul mercato, ma il tifoso è abbandonato nel silenzio. L’affare Veiga ripropone le solite dinamiche sfiancanti ad esito infausto, aggravate da un disvalore simbolico, poiché il Napoli ha mancato l’occasione proprio nella sua dimensione dichiarata, quella rivolta ai talenti accessibili e promettenti. La demonizzazione del giocatore ha solo una logica postuma, poiché la chiusura dell’affare in tempi più brevi avrebbe impedito la presenza araba. Il rinnovo di Osimhen tenuto sarà il dolce finale di una estate estenuante. Quando un capolavoro può non bastare.

(Fa.Cas.)

 

    Scudetto a parte, la grossa novità di inizio stagione è stata l'apertura di credito di Napoli nei confronti di De Laurentiis. Un atto dovuto -dopo la cavalcata vincente e le scelte straordinarie dello scorso mercato- che ha avuto due ricadute pratiche: la cieca fiducia nell'allestimento dell'organico e, soprattutto, nelle lunghe tempistiche in cui esso si completa. Senza entrare prematuramente nel merito della qualità  (Natan e Cajuste restano due scommesse da vincere, mentre per Veiga le premesse sembrano eccellenti), resta oggettivo, però,  il passo molto lento con il quale il Napoli si è approcciato all'esordio in campionato. Un rischio probabilmente sottovalutato, se è vero che una partenza bruciante paga molto in classifica e nel morale.
   Insomma, presentarsi alla prima di campionato senza un paio di innesti, con qualche titolare ancora sull'uscio di una infermeria già troppo frequentata e con buona parte della squadra in difetto di preparazione ("molti giocatori non potevano finire la gara", ammetterà Garcia in conferenza stampa) è stato l'azzardo che ha sfiorato la coscienza di un Napoli acerbo e vincente. "Assurdo che ad inizio campionato il mercato sia ancora aperto", mugugna Sarri da Roma. Ma evidentemente, la gestione assurda di metà agosto rientra tra quelle variabili poco prevedibili imposte da un carrozzone ormai guidato senza un filo credibilità e buon senso. Il calcio estivo è un cantiere aperto che rende approssimativa e provvisoria qualsiasi valutazione tecnica, oltre la pura conferma dei valori espressi l'anno prima. Il Napoli c'è, poichè la giusta priorità è stata la riconferma dell'organico. Lo scudetto di agosto si può vincere anche così.
   Sullo sfondo, la grottesca gestione dell'affare-Spalletti. Comunque si concluda (e pare che la conclusione svilisca ancora il rispetto per le regole), i tifosi napoletani ne escono traditi e mortificati negli affetti. La stanchezza era un futile pretesto, l'amore per Napoli un ipocrita sentimento di facciata. La sceneggiata di Spalletti oggi sfiora il patetico ma conferma la sua verità: destini forti per uomini forti. Di stomaco.

(Fa.Cas.)

 

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