E' accaduto anche questo



 

 

                             Nel Napoli è accaduto anche questo...

  Dietro le quinte di un palcoscenico immenso. Quasi un secolo di episodi, retroscena, alcuni inediti, altri parzialmente noti, oppure già entrati nella storia ufficiale del Napoli e nei ricordi dei tifosi partenopei. Qui raccogliamo molti di questi episodi, ma non troverete tutti quelli di nostra conoscenza, perché di molte vicende azzurre parliamo altrove, in altre pagine, trattando argomenti specifici, momenti storici e personaggi di rilievo.

IL VERO TIFO A NAPOLI COMINCIO’ COSI’  (1905) – Primo vero atto di tifo collettivo a Napoli. Molti simpatizzanti si recarono a Bagnoli per assistere ad un “incontro del secolo”, quello tra il Naples, da poco fondato, e i marinai della nave inglese “Arabic”, con ottimi giocatori famosi in patria, presentati come i pionieri del calcio. Vinse clamorosamente il Naples per 3-2. Erano praticamente le prime scene di tifo e di entusiasmo sul campo e per le strade. Poche righe apparvero sui  giornale.

 PRIMI GIOCATORI IN BUSTA_PAGA (1925-26) – A Napoli per la prima volta i giocatori vennero retribuiti come “professionisti”, in quanto Carlo Carcano ex nazionale, ingaggiato da Ascarelli come allenatore dell’Internaples (e poi protagonista di cinque scudetti juventini nel Trentennio), pretese che i calciatori si sottoponessero agli allenamenti per tutta la settimana, senza altri impegni, per assicurare la forma fisica e studiare gli schemi di gioco. Nel luglio del '26, a seguito dei gravi incidenti avvenuti a Napoli nella partita con l'Alba Roma, Carcano, insieme con la "grande promessa" Ferrari (divenuto poi punto di forza della Nazionale, dell'Ambrosiana, della Juve e del Bologna con otto scudetti e due titoli mondiali), scossi profondamente, diciamo impauriti, per la gravità degli incidenti, fecero la valigia e notte tempo lasciarono Napoli per risistemarsi al Nord. Per il calcio napoletano  fu una  perdita pesante, soprattutto in quel periodo  . Nella foto, i primi giornali che si occuparono di calcio in Italia

E COMINCIARONO GLI ILLECITI (1926-27) - Nel primo campionato del Napoli in Serie A (il peggiore della storia con un solo punto conquistato, grazie al pareggio casalingo contro il Brescia) lo scudetto fu vinto dal Torino, ma il titolo venne revocato  dalla Federazione in quanto, in occasione del derby piemontese, un dirigente granata aveva promesso al giocatore  juventino Allemandi 50.000 lire per favorire la vittoria dei granata (2-1).

CITTA’ BLOCCATA PER I FUNERALI DI ASCARELLI (1929-30) - Primo grande lutto nel Napoli. Ad appena 36 anni, moriva all’alba del 13 marzo 1930, all’improvviso, di peritonite perforante, Giorgio Ascarelli, munifico presidente, un napoletano verace della zona Pendino, che aveva gettato le basi per un grande Napoli, agli ordini di Garbutt, un dirigente mite, ma intelligente, abile industriale tessile, di origine ebrea (il che diventò la sua colpa, quando il Fascismo impedì che fosse intestato a lui lo stadio che Ascarelli aveva fatto costruire a proprie spese nel rione Luzzati). Personaggio operoso e schivo, quando fu inaugurato lo stadio, con una vittoria sulla Juve, invano fu cercato tra le autorità presenti: per non farsi notare se n’era andato in un settore di second’ordine a godersi da solo, tra la folla, un momento che era soprattutto suo. E quando, diciotto giorni dopo l’inaugurazione dello stadio, si svolsero i suoi funerali, questi furono imponenti e portarono i resti dell’amato presidente da Villa Bice, al 169 di Via Posillipo, fino al cimitero ebraico, percorrendo tutta la città, tra tanta folla, per strade chiuse al traffico. Lasciò molto rimpianto ed un Napoli costruito per grandi traguardi. La squadra in ritiro ad Arese, vicino Milano, si mise in treno venerdì pomeriggio, partecipò ai funerali il sabato e subito dopo, sempre in treno (seconda classe) raggiunse Milano, dopo una notte scomoda, in tempo per l’incontro col Milan. Nel ricordo di Ascarelli, gli azzurri vinsero 3-0. Nella foto, a destra, i funerali del presidente Ascarelli nel centro di Napoli, tra una folla immensa e commossa.

LO "SPOGLIARELLO" DI SALLUSTRO (1929-30) – La prima vera sfida diretta tra Attila Sallustro e Peppino Meazza (divenuti  grandi rivali dopo che il C.T. Vittorio Pozzo aveva improvvisamente  sostituito in Nazionale Sallustro con Meazza, a seguito dell’indisponibilità dell’altro attaccante “napoletano” Mihalic) si svolse allo stadio Ascarelli il 29 maggio  e fu vinta da Attila con due reti (3-1) sulla capolista. A Sallustro non fu consentito di tornare a casa sull'auto di un amico, com'era solito fare (non aveva ancora la "Balilla" che ebbe poi in regalo). All’uscita dallo spogliatoio fu issato sulle spalle dei tifosi e portato in trionfo per le strade nei pressi dello stadio. Sallustro ci rimise giacca, pantaloni e cravatta, presi come "cimeli" dagli entusiasti tifosi azzurri.

VIETATO DARE DEL TU AI GIOCATORI DI GARBUTT (1930-31) - Sulla severità, sulla disciplina ed il senso del rispetto dell’allenatore Garbutt, ecco un ricordo di Athos Zontini, giocatore di quel Napoli e poi medico sociale. “Esistevano allo stadio Ascarelli tre spogliatoi (oltre a quelli per gli ospiti e per l’arbitro). Ebbene nello spogliatoi della prima squadra potevano accedere solo i titolari e le riserve che facevano parte della rosa della prima squadra. Poi c’era uno spogliatoio delle “riserve” destinato alla squadra B e a qualche allievo di rango superiore. Il terzo locale era riservato ai ragazzi e ai boys azzurri. Era proibito in modo assoluto accedere allo spogliatoio della prima squadra: bisognava bussare, ottenere il permesso per entrare, e spiegare che cosa si voleva. Guai a chi avesse osato mancare alla consegna... Inoltre, ragazzi e boys erano diffidati dal prendersi confidenze con i titolari o chiamarli semplicemente per nome. Si aveva il dovere di chiamarli “signor Vojak”, “signor Sallustro” e dare loro del lei o del voi. Chiunque, infine, avesse avuto cose personali da riferire all’allenatore poteva farlo solo presso la sede sociale nella stanza riservata al tecnico, giacchè “al campo si viene soltanto per l’allenamento. Le cose private le sbrighiamo fuori di qui…” diceva Garbutt”. Il mister  aveva 46 anni  quando arrivò a Napoli. Dai 16 ai 29 anni aveva giocato  da attaccante prima con i Blackburn Rovers e poi per nove anni nell’Arsenal di Londra, finchè non gli ruppero un ginocchio. Fu ottimo attaccante (ala destra della Nazionale inglese) e valido artigliere albionico sul fronte francese durante la prima Guerra Mondiale (4 anni di guerra, 3 medaglie al valor militare e una ferita al ginocchio destro). In Italia Garbutt da allenatore guidò, per sette anni, il Genoa (tre scudetti) e per due la Roma. Passione per i cavalli e per il buon vino. Con lui in panchina il Napoli giocò duecento partite e ne vinse quasi la metà, novantadue, pareggiandone quarantadue. Nella foto a sinistra Garbutt a bordo campo; in quella a destra gli azzurri nello spogliatoio dello stadio  Ascarelli, ovviamente senza i confort di cui godono oggi i giocatori.

PIOLA RUPPE LE OSSA A ZIO CAVANNA (1930-31) - Il grande portiere del Napoli di Garbutt degli anni Trenta, Peppe Cavanna, era, com’è noto, zio del grandissimo e plurinazionale Silvio Piola. Ricordiamo il loro rapporto di parentela attraverso il ricordo dell’attaccante campione del mondo: “ Il rapporto di parentela era molto stretto. Cavanna era fratello di mia madre. Giocò sei volte in Nazionale B e fu anche convocato da Pozzo per i mondiali del 1934, come riserva del famoso Combi. Io me lo trovai di fronte quando esordii nella Pro Vercelli, e lui giocava nel Napoli. Ricordo che nella prima partita del girone d’andata nel campionato 1930-31 a Napoli  fummo battuti per uno a zero con un gol di Sallustro, ma la squadra azzurra finì la partita in dieci uomini perché nel parare un mio forte tiro, in tuffo, Cavanna si fratturò la clavicola (rimase fuori squadra per undici partite sostituito da Marietti). Nel girone di ritorno ci prendemmo la rivincita e su sei gol che la Pro Vercelli segnò quel giorno a Cavanna (6-3), tre furono proprio miei. Se la prima volta avevo involontariamente ferito mio zio, la seconda lo colsi nel morale e nell’amor proprio. Dopo il  sesto gol fui io stesso a raccogliere il pallone nella rete, dicendogli ironicamente: “Lascia fare a me, zio, che ormai sei stanco…”. Mi perdonò questo affronto soltanto quando dedicai a lui i gol del mio esordio internazionale al Prater di Vienna". Nella foto, Cavanna con la maglia della Nazionale.

IL FASCISMO DICHIARO’ GUERRA AGLI STRANIERI (1932-33) – Anche il Napoli fu costretto a rivedere i suoi progetti di rafforzamento, in seguito alla decisione del Fascismo (il calcio, droga dei poveri, ormai era nelle mani del regime che si impadronì di tutte le  cariche federali finite nelle mani di uomini in camicia nera), decisioni che prevedevano l‘esclusione degli stranieri dal nostro campionato. Porte aperte, invece, per gli oriundi, cioè i figli degli emigranti italiani (moltissimi) che potevano usufruire di doppio passaporto e quindi in condizione di essere tesserati. Il Fascismo ripulì anche il calcio da espressioni e da nomi stranieri. Proibito dire “penalty” imvece di rigore, “corner” invece di calcio d’angolo. Alcuni giocatori nati in terre redenti furono invitati ad italianizzare i loro cognomi. E così l’attaccante del Napoli Vojak divenne Vogliani, Colausig diventò Colassi, Kuffersin divenne Cuffersin, tanto per citare i più noti. Nella foto, Umberto II di Savoia assiste ad un incontro del Napoli nella tribuna Autorità dell' Ascarelli.

LE TENTAZIONI DELLE BALLERINE DI MACARIO (1932-33) - L’allenatore azzurro Garbutt esercitava il suo controllo sui calciatori in maniera assillante. Spesso impedì a qualche azzurro scappatelle notturne specialmente negli alberghi dove alloggiava la squadra. Memorabile, nel 1933,  fu la notte bianca trascorsa insieme con il massaggiatore Beato nell’Hotel Sitea, dove la squadra  era in attesa dell’incontro con la Juventus. In quest’albergo erano ospiti anche le ballerine della rivista di Erminio Macario, notoriamente le più belle e formose tra quelle che calcavano il palcoscenico. Il feeling tra queste affascinanti ragazze e quei baldi giovanotti fu immediato. Garbutt intravide il pericolo, alla vigilia di una partita così importante e montò la guardia col fido Michelangelo Beato nei corridoi. Ogni tanto qualche azzurro faceva capolino dalla sua stanza, ma veniva ricacciato in stanza dai due nervosissimi e severi vigilantes napoletani. Ma “le creature si squietarono” raccontò poi Michelangelo Beato “e persero sonno, tranquillità e partita” . Un tre a zero in maniera balorda che dette modo negli spogliatoi a Garbutt di fare una strigliata solenne con precisi atti di accusa agli azzurri esuberanti.

E INVECE DELLA "CREATURA", LAURO EBBE IL NAPOLI (1935-36) - Nel 1936, il 15 marzo, arrivò al vertice della società il Gr. Uff. Comandante Achille Lauro, armatore. Già come vicepresidente al fianco dell’ing. Giuseppe Savarese,( successore di Giorgio Ascarelli e di Giovanni Maresca di Serracapriola)  Lauro aveva mostrato le sue capacità, severo, a volte spietato, personaggio pratico, un fascino tutto particolare, in linea con il piano economico del presidente Savarese, il quale durante la sua gestione aveva ridotto il passivo da 800 mila lire a 266 mila. L’Ambrosiana aveva versato al Napoli 190 mila lire per l’acquisto di Ferraris II e per il resto provvide Lauro. E il bilancio fu salvo. Fu il primo atto concreto di don Achille. Si narra che Savarese, nella sua veste anche di Federale, prima di partire per l’Africa Orientale, dove aveva deciso di combattere con le camicie nere, chiamò Achille Lauro e gli preannunciò la decisione del Partito Fascista: “ Caro Comandante, ti affiderò una mia creatura. Abbine cura”. Al che Lauro si sarebbe preoccupato di avvisare la moglie, donna Angelina, di preparare una bella stanza per il nuovo arrivato. Quando Savarese gli inviò il “malloppo” cartaceo della Società per metterlo al corrente della situazione, don Achille capì l’equivoco e chi fosse in realtà la “creatura”. Il Comandante, nello spirito suo e del momento storico, da Presidente cominciò subito ad economizzare, nella conduzione della Società (spostò la sede in una sola stanza presso la sua Flotta in Via De Petris e tagliò il numero del personale), riducendo tutto nella gestione dei giocatori, nelle spese, limitando le “uscite” allo stretto necessario. Un’opera di bonifica che continuò nel tempo, ma che col passare degli anni non impedì al Napoli di accumulare grossi deficit. Nella foto, Lauro.

DON ACHILLE SEMPRE SPECIALISTA IN MULTE E IN RITIRI (1937-38) – Cominciò con Lauro presidente nel 1937-38, la la lunghissima serie di multe comminate ai giocatori da Achille Lauro, che detiene un record in materia. Lauro è rimasto nella storia come il presidente che più di tutti ha usato l’arma delle multe pecuniarie per colpire i giocatori azzurri “inadempienti”, multe alle quali spesso aggiungeva ritiri punitivi (a volte a spese degli stessi calciatori!!!). Cominciò, quindi,  proprio nel 1937-38, fresco presidente, dopo la partita inaugurale persa contro la Samp a Napoli. Il Comandante proseguì con insolita frequenza negli anni successivi, fino agli Anni Sessanta, finchè si trovò al timone della società: ogni volta che ravvisò uno “scarso rendimento”  appioppò ai giocatori multe salate.

32 RIGORI PARATI DA SENTIMENTI II (1937-38) – Cominciò il 26 settembre 1937 in Roma-Napoli la lunga serie di rigori parati dal portiere napoletano Sentimenti II, Arnaldo, grande specialista in materia. Quel pomeriggio Sentimenti II parò un penalty di Fulvio Bernardini. Nella sua lunga carriera in azzurro, dal 1934 al 1947, Cherie , com’era chiamato Sentimenti II a Napoli (perchè cantava sovente la canzone "Cherie-cherie"), tra gare di campionato, di Coppa ed amichevoli, parerà ben 32 penalty, dodici dei quali consecutivi nella stagione 1941-42. Curioso che a mettere fine a quella lunga imbattibilità fu proprio il fratello, Sentimenti IV, anche lui portiere, detto “Cochi”, passato poi alla Juve per una luminosissima carriera. Capitò che in Napoli- Modena il 17 maggio del 1942,  all'Ascarelli di mattina (spesso durante il periodo di guerra si giocava a mezzogiorno perché a quell’ora i bombardamenti ed i relativi allarmi erano meno frequenti) Sentimenti IV , che oltre ad essere un apprezzato rigorista, sapeva giocare anche all’attacco, sul 2-0 per il Napoli, volle tirare un penalty concesso dall’arbitro Bellè. Tra il sorriso beffardo di Sentimenti II, forte del fresco primato, abituato a ben altri tiratori (aveva neutralizzato anche Piola, Meazza e Frossi), il fratello modenese realizzò il rigore con una finta ed una cannonata all'incrocio dei pali, che piegò Arnaldo, nonostante questi avesse intuito la traiettoria. Sentimenti II, ovviamente stizzito, non tanto per il gol del 2-1, ma per l’inviolabilità interrotta, inseguì il fratello per buona parte del campo… Arnaldo Sentimenti, classificato come II della serie, era nato a Bomporto, vicino Modena, ed era il secondo di una dinastia di cinque fratelli, tutti dedicatisi al calcio, ben quattro dei quali arrivati sul palcoscenico della Serie A: oltre al napoletano Arnaldo, c’erano Vittorio (III), Lucidio (IV, anche lui portiere, come abbiamo visto) e Primo (V). Arnaldo Sentimenti giocò nel Napoli dal 1937 come riserva del grande Cavanna, ed era dotato di un gran senso della posizione che lo favoriva nell’affrontare i calci di rigore. Smise dopo dodici stagioni in azzurro e 227 presenze. Sentimenti II è stato uno dei più grandi portieri italiani di tutti i tempi, ma aveva un carattere litigioso, tanto da venire varie volte espulso, evenienza rarissima per un portiere. In uno di questi casi gli venne decurtato il premio di partita: mille lire, una cifra cospicua a quei tempi, quando si sognava e si cantava di poterle avere. una volta al mese. Sallustro chiese ai dirigenti di poter rinunciare al suo premio in favore del compagno. I dirigenti azzurri, colpiti dalla  generosità di Attila , perdonarono il gesto d'intemperanza del portiere e gli assegnarono il premio che gli spettava. Da sottolineare che Sentimenti II, nell’ultimo campionato disputato con il Napoli, operò anche nelle vesti di allenatore. Sul finire della stagione, infatti, subentrò a Giovanni Vecchina che a sua volta era stato chiamato a sostituire l’uruguajano Michele Sansone. Sentimenti Si stabilì e mise famiglia a Napoli, fu molto popolare ed amato al Vomero. Nella foto, un'eccezionale immagine dei  quattro fratelli Sentimenti, tutti insieme: da sinistra, il quarto, il quinto, il terzo ed il secondo, il "napoletano".

IL GOL DI RAF VALLONE E LA “FUGA” DELLA FIGLIA
(1938-39) - Il 27 novembre del 1938 a Torino contro i granata, il Napoli affrontò il Torino che schierava un giovane calciatore di origine calabrese, Raffaele Vallone, che segnò anche uno dei tre gol del successo granata. Vallone militò nel Torino tre stagioni (23 presenze, 4 gol), ma poi insoddisfatto delle prospettive calcistiche, preferì dedicarsi all’arte ed al giornalismo. Ritornerà alla ribalta nel dopoguerra come divo del cinema ed attore di teatro. Il suo nome d’arte era Raf Vallone, il suo primo successo “Riso Amaro” con Silvana Mangano. Moltissimi anni dopo, durante il periodo maradoniano, rispuntò il nome di Vallone in casa-Napoli. Fu quando la figlia di Raf Vallone, la bellissima Eleonora, pittrice, attrice e poi giornalista, si presentò nel ritiro degli azzurri, ma fu gentilmente invitata ad andar via dall’allenatore  Bianchi, intento a  controllare la “serenità”  dei giocatori azzurri.  Nella foto, Eleonora Vallone fotografata nei suoi anni di splendore.

GRAMAGLIA DIVORO’ UNA VALIGIA DI PANINI… (1938-39) - Singolare la scommessa vinta da Bruno Gramaglia, giocatore di rara furbizia e intelligenza, per diversi anni una colonna del Napoli. Aveva un appetito formidabile. Pippone Innocenti raccontava che un giorno, in treno, durante il trasferimento a Milano, mentre fungeva da accompagnatore della squadra, aprì ad un certo momento la sua valigia contenente quaranta panini infarciti con prosciutto che Pippone  aveva portato con se per ogni evenienza: Gramaglia si...intenerì talmente davanti a quel ben di Dio che disse a Innocenti e a Sentimenti. “ Se me li lasciate davanti, li divoro tutti… Anzi faccio una scommessa: se dovessi lasciarne anche mezzo,  pago il pranzo per tutta la squadra”. La scommessa fu accettata e dopo un’oretta Gramaglia aveva svuotato la valigia. Per inciso, Gramaglia ebbe con il Napoli uno stato di servizio eccezionale: lasciò a 36 anni dopo 11 stagioni e  273 presenze.

RECORD: 9 PALLONI SUI PALI DEL NAPOLI (1939-40) - Il Napoli stabilì un record molto particolare , sia pure al passivo. Durante il derby  Lazio-Napoli del 1 dicembre 1939, il dominio laziale sugli azzurri si concretizzò con una doppietta di Silvio Piola e ben nove tra pali e traverse, colpiti dai capitolini nella porta difesa da Sentimenti II. Ben 32  furono i tiri in porta dei romani (e due soli del Napoli). Alla fine la Lazio fu costretta ad accontentarsi di un successo per 2-0, netto ma non roboante.

GALEAZZO CIANO TRAMO’ CONTRO IL NAPOLI (1941-42) - Prima retrocessione del Napoli in B nel 1942. Ma alla vigilia dell’ultima decisiva giornata una losca trama fu attuata ai danni della società azzurra. La prima volta nella storia con conseguenze pesanti, come la retrocessione, ma non fu l’ultima. La famiglia di Galeazzo Ciano (ministro e genero di Mussolini) , di origine livornese, si mosse attivamente per evitare la retrocessione del Livorno. Il segretario di Ciano convocò i Federali di Genova e di Milano e ai due – si racconta – venne ventilato una possibile destituzione dall’incarico qualora il Livorno fosse retrocesso. Entrambi i Federali si mossero, quindi, per catechizzare le società ed i giocatori del Milan (perché non si impegnassero contro il Livorno) e del Genoa (perché giocassero allo spasimo contro il Napoli nella partita decisiva nell’ultima giornata). Il piano riuscì perfettamente. Il Milan si fece battere clamorosamente in casa dal Livorno (2-0) mentre il Genoa lottò alla morte e travolse per tre a zero il Napoli di Sentimenti, Pretto, Gramaglia, Busani,  Venditto(reduce da due successi esterni a Firenze e a Bologna e la domenica prima da un trionfale 4-1 sulla Juve), mentre l’Ambrosiana lasciò all’Atalanta, altra pericolante,  il punto della salvezza. Conclusione: Napoli retrocesso e Livorno salvo! La famiglia Ciano ebbe modo di festeggiare l'evento positivo. Per la cronaca: lo stadio di Livorno era intestato ad Edda Ciano Mussolini. Nella foto, Galeazzo Ciano tifoso del Livorno; a destra il primo gol del Genoa (Trevisan di testa) nella partita che determinò la discussa retrocessione del Napoli all'ultima giornata nel  1941-42.

CAMPIONATO DI GUERRA E DI MORTI (1942-43) - Durante la seconda guerra mondiale, Napoli, più di altre città italiane, diventò, col suo porto e con le istallazioni militari,  l’obiettivo preferito dei bombardieri americani e degli aerei inglesi della RAF. Una serie terrificante di attacchi a tappeto martirizzò la città e incrinò il morale dei napoletani, già scossi da privazioni e sofferenze. Si contarono più di cento incursioni aeree con lancio di bombe (c’è chi assicura che furono addirittura 181) e circa 30 mila morti. Nonostante le paure, i bombardamenti e una città ridotta allo stremo, il campionato venne portato a termine. Distrutto parzialmente l’Ascarelli (il resto lo faranno dopo i vandali) la squadra di calcio di trasferì all'ultimo momento al Vomero. Alcune partite vennero disputate di mattina – l’orario meno frequente per i bombardamenti – altre interrotte e poi riprese dopo il cessato allarme, con fuggi-fuggi generale dagli spalti. Il Palermo, essendo stata dichiarata la Sicilia “zona di guerra” non riuscì a terminare quel campionato anomalo. Nella foto, ritaglio di giornale stampato nei giorni dei bombardamenti.


SENTIMENTI "UCCELLATO" DA META’ CAMPO E SFUMO’ LA SERIE A (1942-43) - Nel campionato di guerra 1942-43, come abbiamo detto, tra mille traversie, spostamenti di orari per scongiurare i bombardamenti pomeridiani, ululati di sirene, morte e terrore, Napoli – città martire – con migliaia di vittime sotto le macerie, si giocò la promozione in Serie A all’ultima giornata contro il Modena . E perse partita (0-1) e promozione (due punti dal Brescia e quattro dal Modena, finiti in A) in una maniera molto singolare. Il 6 giugno, si giocava di mattina allo Stadio del Vomero in emergenza, per l’impossibilità di utilizzare l’ex stadio Ascarelli bombardato e reso inutilizzabile dagli Alleati. L’incontro decisivo per la promozione si trascinò fin quasi allo scadere sullo zero a zero, con i modenesi ben asserragliati a difesa di quel punto sufficiente per la promozione. Negli ultimi minuti il gravissimo errore del portiere azzurro Sentimenti II e l’inopinata sconfitta. Sentimenti si era sistemato a…centrocampo (proprio così!) “per uno spirito di esibizionismo condannabile sotto tutti i punti di vista” (così fu scritto), quando una improvvisa fuga di Remondini offrì una palla d’oro ad Eliani in contropiede e questi uccellò, alto in angolo, il portiere azzurro in vana rincorsa. Uno a zero per il Modena e poco dopo tutti negli spogliatoi di fortuna del Vomero (allora “Stadio Littorio”). Perdere una sfida- promozione così non è cosa di tutti i giorni. Nella foto,  un'uscita del portiere azzurro Sentimenti II.

CON UN’AUTO SCASSATA IN CERCA DI RINFORZI  (1945-46) - Per il campionato della ripresa postbellica, il Napoli incontrò molte difficoltà nel mettere in piedi una squadra. Il presidente in pectore Pasquale Russo ed il dinamico Gigino Scuotto si misero in giro per l’Italia, puntando al Nord. Il viaggio venne compiuto a bordo di una macchina malandata, con quattro ruote “lisce” che sembravano dover scoppiare da un momento all’altro. Si narra che furono rinforzate con delle cinture di pantaloni. Allora i pneumatici erano cosa rara da trovare. Russo e Scuotto furono anche costretti a riposare nell’auto diverse notti (una volta nel freddo della Radicofani) perché i letti di certi alberghi, abbordabili a prezzi convenienti, erano sovente popolati da animaletti. Il loro viaggio fruttò, comunque, un bel gruppo di giocatori tra cui Sansone (anche allenatore), Andreolo, Lustha, Gallanti, Barbieri e Rosi.

UNA SCARPETTA VINCENTE IN VETRINA  (1945-46) - Fu il campionato della scarpetta di Di Costanzo esposta nel Bar Fiore alla Ferrovia, dopo il gol decisivo di Egidio e la vittoria a Firenze, e poi del crollo della balconata della tribuna dello stadio del Vomero sul gol di Lustha contro il Bari, con oltre 100 feriti. Il giorno dopo il successo di Firenze nel ritrovo degli sportivi del Vasto, il Bar Fiore, di proprietà  del compianto Francesco Fiore (padre di Roberto Fiore), comparve in vetrina, tra liquori, pasticcini e caramelle, la scarpetta di Di Costanzo, “smarrita” insieme con la valigia di Di Costanzo nel ritorno della squadra a Napoli. Francesco Fiore, che era anche un poeta dialettale, compose in tutta fretta questa quartina che figurò anch’essa in vetrina: “Chesta è ‘a scarpa e Di Costanzo/ che signanno ‘e renza ‘e renza/ ha inguaiato l’esistenza/ dei tifosi di Firenze.” Dell’episodio del crollo allo stadio parliamo a parte. Qui aggiungiamo che, a seguito dell’annuncio del grave incidente dato da Nicolò Carosio radiocronista allo stadio, tutte le strade che allora portavano al Vomero furono, subito dopo, invase da napoletani in cerca di notizie dei loro familiari. Solo a sera la situazione si normalizzò. Nella foto, a sinistra,  Di Costanzo autore del gol decisivo a Firenze, uno  dei primi giocatori napoletani messisi in luce nell'immediato dopoguerra con la maglia azzurra

 PRETTO  TRAVESTITO DA POLIZIOTTO (1946-47) - La deludente prestazione azzurra contro la Lazio allo stadio del  Vomero (pareggio per 0-0) determinò una dura contestazione dei tifosi, al grido di “venduti, venduti!”. Qualcuno lanciò anche delle pietre in campo contro gli azzurri ed una colpì il bollente terzino napoletano Pretto, che la rilanciò sdegnosamente sugli spalti contro un gruppo di teppisti. Mario Pretto, sangue caliente,  rischiò l’aggressione della folla inviperita e delusa che premeva intorno agli spogliatoi, dopo lo 0-0 finale . Si salvò fuggendo vestito da agente della P.S. In quello stesso campionato da registrare la salvezza ottenuta dalla Roma al Vomero con una clamorosa vittoria per 3-0, alla terz'ultima giornata. Con quel trionfo inatteso, la Roma evitò la B classificandosi a due punti dal Brescia, retrocesso con Venezia e Triestina. Il Napoli, ormai in zona sicurezza,  per l'occasione mise in campo una "strana" formazione...sperimentale, segnò una doppietta Krieziu che nella stagione successiva fu trasferito dalla Roma riconoscente "a prezzo scontato" al Napoli. Nella foto, in alto, a destra, un duello tra l'arcigno Pretto e l'intramontabile Silvio Piola durante un Napoli-Juventus, nell'immediato  dopoguerra.

QUELLA PARTITA “COMPRATA” A BOLOGNA (1947-48) -  Dopo il successo del Napoli a Bologna per 1-0 con gol di Krieziu proprio all'ultimo minuto della partita, la società azzurra finì sotto processo. Secondo l’accusa, l’attaccante Ganelli aveva tentato di corrompere i rossoblu Taiti, Cappello ed Arcari, mentre. Paolo Innocenti, di origini bolognesi,  gli aveva tenuto bordone, col beneplacito del presidente Muscariello. Innocenti se la cavò con tre anni di squalifica, Ganelli e Muscariello furono radiati, ma in seguito il presidente napoletano  ottenne la riqualificazione. Il Napoli finì in fondo alla classifica e retrocesso all’ultimo posto, insieme con Salernitana, Alessandria e Vicenza. Il Napoli, comunque, sarebbe stato egualmente retrocesso anche se non fosse stato punito per l'illecito. Si era classificato, infatti,  al quart'ultimo posto e quindi era già in Serie B. Fu sono una brutta pagina sportiva. Nella foto, un intervento difensivo di Andreolo e Pretto nella partita vinta dal Napoli a Bologna, con un gol   in  zona Cesarini.

GRAZIE ALL’ARBITRO, UN FURTO A SAN SIRO (1947-48) – A San Siro verso la conclusione del torneo 1947-48, il 20 giugno 1948, all'Arena, fu commesso ai danni del Napoli contro l’Inter uno dei più clamorosi, scandalosi  furti che la storia ricordi, frutto proprio del differente peso specifico tra la barcollante, modesta società azzurra e la raccomandatissima, gloriosa (ma non quell’anno), ricca squadra nerazzurra. Uno scontro, insomma, tra poteri forti e deboli. Il Napoli, in lotta per la salvezza, affrontò a tre giornate dalla fine l’Inter anch’essa impegnata in zona retrocessione. Arbitro Bonivento, assoluto protagonista della sconfitta degli azzurri per 1-0 con gol di Lorenzi. Il direttore di gara arbitrò a senso unico, dando chiara  l’impressione di voler affossare gli azzurri verso la B a tutto vantaggio dell’Inter di Franzosi, Guaita e Lorenzi. E così fu. Bonivento annullò un gol regolare di La Paz – come riconobbe poi tutta la stampa obiettiva presente a San Siro - espellendo peraltro l’attaccante Barbieri e l’allora allenatore Sentimenti II. L’Inter vinse e si salvò. Bonivento non arbitrò più. Il suo errore fu anche dimostrato dalla "Settimana Incom" , il notiziario settimanale che veniva proiettato nei cinema  ed era l'unico modo - a quei tempi lontani dalla Tv e dalle moviole - di vedere sullo schermo cinematografico (prima del film in programma) la sintesi delle partite più importanti, oltre agli avvenimenti di rilievo. Non bastarono due vittorie successive (5-0 alla Lucchese e 1-0 sul Bari) agli azzurri per evitare la B: finirono quart’ultimi e quindi retrocessi insieme con Salernitana, Alessandria e Vicenza. A fine campionato poi sopraggiunse la condanna del Napoli per un illecito nella partita vinta a Bologna (1-0, gol di Krieziu all’ultimo minuto) e il Napoli fu addirittura retrocesso all’ultimo posto. Ma quando Bonivento determinò la sconfitta "salva-Inter" a San Siro non era certamente al corrente di quanto era successo a Bologna. La condanna e la macchia restavano indelebili, come del resto, testimonia il resoconto del grande Silva, il giornalista che accompagnò la sua “disegnata” sul Calcio Illustrato con parole di fuoco contro l’arbitro. A fine gara la Polizia fu costretta ad intervenire per proteggere l'arbitro dalla  reazione degli azzurri. Nella foto, la parte della “disegnata” che bolla Bonivento, discusso direttore di gara a S.Siro. E' leggibile fin dall'inizio il giudizio severo sull'arbitraggio.

LA TATTICA DI DE MANES  (1948-49) - Vecchio calcio, ruspante, semplice, naif, vero, romantico, ancorché pasticcione, non ancora ingordo di business e di  tattica. A quel tempo, alla fine degli anni ’40, funzionava così: Gigione De Manes, popolare personaggio calcistico napoletano, in coppia con Giovanni Lambiase, venne nominato allenatore al posto di Farfallino Borel, silurato. Lui adibito alla strategia, alla tattica; mentre il “mago” Lambiase, si prendeva cura del lavoro sul campo. Già, la tattica: De Manes, in silenzio, fissava a lungo i giocatori negli occhi, prima della partita, nel ventre dello stadio del Vomero, poi indicava la strategia da seguire. “Guagliù, oggi s’adda iucà!”. Lapidario, basta e avanza. E quand’era più loquace ordinava ai giocatori schierati sul campo per l’allenamento: “Disponetevi in un circolo quadrato”. E gli azzurri, pazienti, eseguivano…Chissà come.

E AL "VOMERO" RIAPPARVE  IL CIUCCIO  (1949-50) - Il ciuccio, simbolo storico del Napoli,  che aveva fatto la sua prima apparizione sul campo Ascarelli, all’inaugurazione dello stadio, il 23 gennaio del 1930,  riapparve su un terreno di gioco nel 1950, il 23 giugno, quando in occasione dell’ultima partita della stagione contro il Catania ( 2-1 con doppietta di Suprina), i tifosi organizzati (c’erano anche allora, ma meno esigenti e più affiatati con la società) festeggiarono al Vomero il ritorno in Serie A del  Napoli di Monzeglio. Intorno all’asinello bardato di azzurro c’erano tra gli altri due capi storici del tifo azzurro, ‘o chiattone (Carmine D’Alpino) e ‘o ricciulillo (Gennaro Notarangelo, il “re di Forcella”), protagonisti di altre iniziative e organizzatori dei festeggiamenti per la promozione. Nella foto, il giro di campo dei tifosi azzurri con il ciuccio bardato a festa, dopo la promozione nel '50.

IL PRESIDENTE VITTIMA DI UN INCENDIO (1950-51) - Per la seconda volta, un avverso destino stroncò la vita di un presidente azzurro, Egidio Musollino, che – come Ascarelli – aveva gettato le basi  per il rilancio del Napoli. Il  primo passo era stato il ritorno in Serie A. Una sera di marzo del 1951 un violento incendio scoppiò nei pressi dell’abitazione del presidente, e precisamente nei locali del famoso ristorante D’Angelo in Via Aniello Falcone, incendio che spinse molti abitanti della zona, e lo stesso Musollino, a riversarsi in strada per rendersi conto da vicino della portata dell’incidente e seguire l’opera di spegnimento. Il calore intenso del fuoco,  in contrasto con la temperatura fredda della notte, determinò in  Egidio Musollino delle complicazioni polmonari che in breve tempo portarono alla morte il presidente. Nella foto, il presidente azzurro Egidio Musollino col berretto universitario regalatogli   da un gruppo di studenti, tifosi azzurri.

CASARI NON… SAPEVA E PARO’ DUE RIGORI (1950-51) - 17 giugno del '51, ultima giornata di campionato. Il Napoli ormai tranquillo nella pancia della classifica doveva giocare a Padova , contro una squadra tremendamente compromessa nella lotta per la salvezza. I patavini dovevano vincere per non retrocedere. Il Napoli, invece, era già impegnato nella campagna di potenziamento ed aveva già gettato molte rete, qualcuna anche a Padova e precisamente per un attaccante. Si “narra” che i dirigenti veneti si raccomandarono al dinamico “reggente” azzurro Gigino Scuotto di non infierire, ottenendo un sorriso ed una promessa di…scambio merce. Dopo di che - pare – che venne sensibilizzato qualcuno della vecchia guardia azzurra di sicuro affidamento, primo fra tutti l’anziano ma ancor valido Gramaglia. Certo è che il Napoli alla mezz’ora mise in condizione il Padova di tirare un rigore. Sembrava un buon avvio e, invece, ecco Casari strepitoso dire di “no” con una gran parata. Fu come fu, la difesa azzurra tre minuti dopo cadde di nuovo nel fallo. Ancora un rigore, concesso dall’arbitro Silvano, e nuova eccezionale respinta di Casari che sventò prima il penalty e poi neutralizzò anche il successivo tiro ravvicinato dei biancorossi, tra gli sguardi risentiti dei dirigenti patavini e l’imbarazzo di quelli azzurri. Ma come, si chiesero a Padova, questo è l’aiutino? Ma forse Casari era l’unico a non sapere? Certamente sì. Il Padova alla fine vinse lo stesso per 2-0 quella strana e dura partita , con una doppietta dell’argentino Martegani, e si salvò grazie a quel successo, ai danni nientedimeno che del Genoa e della Roma. Sembra che al 90’ non ci fu nemmeno un saluto tra i dirigenti delle due sponde. E al Napoli ed al suo”reggente povero” Gigino Scuotto toccò di rivedere i programmi della campagna acquisti, puntando su altri lidi. Nella foto, un intervento di Casari durante quella famosa gara di Padova.

L’ESTROSO BACCHETTI MORI’ IN CARCERE (1950-51)  Antonio Bacchetti, uno degli acquisti di quella stagione, fu anche uno dei giocatori più bravi, più amati, più strani e discontinui del Napoli di tutti i tempi. La mezzala bresciana – anche in odore di Nazionale - era dotato di un’immensa classe, di grande estro, ma alternava sempre alle sue prodezze momenti di sconcertante apatia. Una domenica per la gara con l’Inter, Bacchetti non si presentò negli spogliatoi. Monzeglio fu costretto a chiamarlo attraverso gli altoparlanti del “Vomero”. Niente. Giocò Gramaglia al suo posto.  In tribuna sugli ultimi gradini, avvolto in un impermeabile, ben coperto da un cappello a falde larghe e abbassate, gli occhi protetti da un occhiale scuro, stava fumando una sigaretta proprio Bacchetti… Rimase in azzurro solo due stagioni, poi continuò il girovagare per i campi italiani per finire in un penitenziario di Stato. Qui Bacchetti fu rinchiuso dopo che, in un momento di follia, aveva ucciso il presidente di una squadra del settore giovanile veneto, reo di non aver onorato le spettanze al mediatore Bacchetti. E nel carcere morì. Nella foto Bacchetti l'estroso attaccante.

L’ARBITRO A FORMENTIN: “TI ASPETTO FUORI!” (1951-52) - Insolita minaccia di un arbitro ad un giocatore. Avvenne il 6 gennaio del 1952 a Ferrara. La sconfitta degli azzurri (2-1) fece perdere le staffe alla mezzala azzurra Formentin che più volte andò a protestare vivacemente con l’arbitro Massai, colpevole tra l’altro di aver concesso un discutibile rigore agli spallini (parato poi da Casari). Alla fini, l’arbitro infastidito minacciò Formentin: “Ti aspetto fuori!”, espressione molto frequente tra giocatori in campo , non certo abituale tra arbitro e calciatore. Naturalmente, Massai non aspettò Formentin fuori, ma gli fece affibbiare dal Giudice Sportivo due giornate di squalifica.

COL NAPOLI ANCHE  CAMPAGNE ELETTORALI (1952-53) - Nella storia del Napoli si registrò nel 1952 il ritorno di Achille Lauro alla guida degli azzurri. Lauro volle impegnarsi in prima persona anche perché era balzato alla ribalta politica col partito monarchico e aveva intenzione di utilizzare anche il Napoli nella campagna elettorale. Nel corso degli anni, diverse partite amichevoli furono così organizzate con finalità politiche, su campi di provincia. La squadra ne soffrì, in quanto si trattò di giocare  su certi campi ed in alcune località, dove il terreno di gioco era assolutamente impraticabile, senza erba, a volte persino roccioso. Una volta gli azzurri furono costretti a spogliarsi in alcuni box usati per i cavalli, tra mangiatoie e cumuli di biada, visto che in quel campo non esistevano spogliatoi… I tifosi azzurri restarono colpiti nel leggere in moltissimi angoli della città striscioni giganteschi con uno slogan che divenne famoso: “Per un grande Napoli ed una grande Napoli, vota Achille Lauro”. Il Comandante ottenne così una schiacciante vittoria elettorale nelle amministrative del 1952. Comunque, Lauro, sindaco di Napoli,  mantenne le promesse con i tifosi. Quell’anno, oltre a Pesaola e Vitali, fu acquistato soprattutto Hasse Jeppson, campione svedese dell’Atalanta, grazie al versamento record di 105 milioni. Naturalmente – come doveva avvenire successivamente per Savoldi e per Maradona – la cifra record spesa per Jeppson, finito in una città – come Napoli - assillata da tanti problemi, fu accompagnata anche da assurde polemiche sul sociale, come se i milioni per l’ingaggio dello svedese fossero usciti dalle casse del Comune… Nella foto, Lauro sindaco durante una riunione del Consiglio Comunale dopo il  successo nel 1952.

CASARI COMPOSE ANCHE UNA CANZONE PER PIEDIGROTTA (1952-53) - Bepi Casari, il gigante buono. uno dei più validi portieri azzurri, componente della Nazionale ai mondiali di Rio de Janeiro, molto corteggiato dalle ragazze napoletane, mise in luce anche la sua vena poetica e canora, componendo una canzone che i maestri Acampora e Dura espressero in musica e che il cantante napoletano Pino Cuomo lanciò nella Piedigrotta. La canzone di Casari aveva un titolo calcistico “M’ha fatto un gol!” E fu accolta con curiosità e interesse. Casari aprì anche un “Bar - Sala corse” in Piazza della Carità. Rotondetto, ebbe sempre problemi di peso. Da ricordare un episodio in Vaticano. Durante una visita organizzata dal Napoli, il portierone azzurro fu presentato a Papa Pacelli, notoriamente il più ieratico della storia. Mentre tutti gli azzurri si inginocchiarono di fronte a Pio XII, lui, bergamasco di estrazione contadina, afferrò la mano del Papa, quasi stritolandogliela con la sua manona e gli disse :”Piacere, Casari”. Nella foto, il portierone azzurro Bepi Casari, dalle mani d'acciaio.

FERLAINO DA GIOVANE FU SQUALIFICATO A VITA (1954) – Il 23 aprile 1954 una data che non c’entra con la storia del Napoli, ma che ben ricorda Corrado Ferlaino, l’uomo che resse le sorti del Napoli per oltre trent’anni. Quel giorno sul campo delle “Cotoniere”, Ferlaino con una squadra del Vomero affrontava per un Torneo della Lega Giovanile il Vasto. Sul 4-0 in favore di quest’ultima formazione, la mezzala Ferlaino fu l’unico ad impegnarsi, alla ricerca del gol della bandiera. Lo segnò, con un diagonale imprendibile, ma l’arbitro ravvisò un fuorigioco ed annullò la “perla” del futuro ingegnere. Ferlaino protestò, si infuriò e colpì l’arbitro con un pugno violento, che mandò il giovane signor Perna a gambe levate. E senza aggiungere altro rientrò negli spogliatoi e si rivestì. Dopo poco gli arrivò la squalifica a vita. Non si è mai saputo con precisione quale indulto o amnistia (pare la vittoria dell’Italia agli Europei)  consentì al giovane Ferlaino di tornare a giocare, sia pure in tornei aziendali.

HASSE JEPPSON SALVO PER MIRACOLO (1955-56)  Hasse Jeppson, mister 105 milioni ebbe a Napoli una vita tormentata. Ai successi seguirono scadimenti di forma, incidenti, polemiche con la società, scambi di lettere roventi, litigi con  Lauro, con l’allenatore Monzeglio, screzi con Vinicio. Dopo i trionfi iniziali finì amaramente il suo soggiorno napoletano (quattro stagioni), accusato tra l’altro di una condotta non professionale. Gli fu attribuito un grande amore con la tennista Silvana Lazzarino, conosciuta durante i suoi frequenti svaghi sulla terra rossa. Attività che Monzeglio riteneva molto faticosa. Ma poi nel ’57 Jeppson sposò al Faito la signorina Emma De Martino, in tutta semplicità. Divenne anche protagonista di un incidente d’auto mortale. Mentre era in trattative con emissari dell’Inter per riscattare la lista e trasferirsi a Milano, si recò più volte a Roma. Fu proprio di ritorno da uno di questi colloqui, verso la mezzanotte del 10 settembre 1955, che la sua Alfa 1900 subì un pauroso incidente. La vettura di Jeppson procedeva ad altissima velocità quando sul nastro di Latina investì un cane. L’Alfa sbandò, uscì fuori strada e si capovolse. L’autista morì sul colpo, aveva 23 anni, e Jeppson fu sbalzato fuori dell’abitacolo e ricoverato all’ospedale di Latina in condizioni critiche. Nessuno dei dirigenti azzurri si degnò di farsi vivo. Poi Hasse riprenderà a giocare nel Napoli, ma a sprazzi e senza esaltare. Non poteva e non voleva più restare. Aiutò il Torino a salvarsi. Nella foto, a sinistra, il dottor Zontini visita Jeppson nell'ospedale di Latina dopo l' incidente che costò la vita al conducente dell'Alfa,  rimasto bloccato nella vettura, mentre Hasse, per sua fortuna,  fu sbalzato fuori. Nell'altra foto, Jeppson tennista nel circolo della  Villa Comunale a Napoli.

100 LIRE PER “MISTER 105 MILIONI” (1955) - Nei suoi ultimi anni di permanenza a Napoli, Jeppson ebbe un rapporto difficile con la società, anche a seguito di infortuni, polemiche, cali di forma. Litigi con l’allenatore, prima Monzeglio, poi Amadei, polemiche con Vinicio, contrasti col presidente Lauro. Dopo il campionato 1955-56 sarà costretto ad accasarsi al Torino. Ma nonostante non fosse più grande come prima, restò sempre nel cuore dei tifosi. Nel giugno del 1955 per l’ex “mister 105 milioni” fu aperta una  sottoscrizione  con lo slogan “100 lire per Jeppson”, come riconoscimento per i suoi meriti ed in polemica con la società che si stava muovendo sul mercato per cederlo. Nella foto, il noto tifoso Chianese consegna un piatto d’argento ad Hasse Jeppson.

MONZEGLIO CACCIO’ LAURO DAGLI SPOGLIATOI (1955-56) - L’allenatore Monzeglio aveva un caratterino particolare. Perentorio, esplicito, di forte personalità. Terzino di classe, già mondiale con Pozzo, era stato allenatore-partner di tennis in casa Mussolini, ben inquadrato nella mentalità del regime. Un vero “sergente di ferro”. Non possedeva automobili ed ogni mattina andava a piedi allo stadio del Vomero, dopo aver sentito messa in una piccola chiesa. Amante della disciplina e della buona educazione. Durante il suo periodo napoletano ebbe scontri con tutti, con i giocatori ( in particolare con Jeppson e Vinicio), con i giornalisti (i più giovani li chiamava “dottorini” in una città in cui erano tutti dottori ) litigò con gli addetti del Napoli, con i dirigenti, persino con il presidente Lauro. Storica la sua frase (per fortuna smentita poi con i due scudetti) : “A Napoli non avrete mai nulla di buono!”.  Un giorno negli spogliatoi riprese severamente Comaschi, per alcune ingenuità di gioco commesse. Il terzino replicò col suo caratteristico vocione e per tutta risposta Monzeglio prese uno zoccolo da terra, invitandolo a tacere e minacciandolo sotto il viso. Comaschi abbozzò e il mister, gettato via lo zoccolo, uscì dallo spogliatoio. Come abbiamo detto, più volte nel mirino di Monzeglio finì anche il Comandante. Una volta, prima di una partita al Vomero, Achille Lauro, con la sigaretta in bocca ed accompagnato da alcune personalità politiche, entrò negli spogliatoi, interrompendo Monzeglio che stava facendo alcune raccomandazioni ai giocatori. A quella irruzione l’allenatore si infiammò e rivolto al presidente esclamò: “ Comandante e lor Signori, per cortesia qui non si fuma, vadano fuori a fumare e discutere perché qui abbiamo da fare!” E con garbo mise tutti fuori, accompagnandoli alla porta. Un giorno invitato da Lauro con tutta la squadra trovò vicino al Comandante persone non gradite, con le quali aveva avuto degli scontri sui giornali. Ad alta voce disse ai suoi atleti, facendo il gesto di annusare l’aria, “ Non sentite niente ragazzi? Andiamo, andiamo via ! Qui c’è puzza di carogne!…”. Un’altra volta, dopo il primo tempo di Napoli- Juventus sul neutro di Bari, nel 1955, a conclusione di  un primo tempo in cui il Napoli perdeva per 1-0, il presidente si precipitò negli spogliatoi, scagliandosi furibondo contro tutti, accusando i giocatori di essere “traditori, ladri e fannulloni”. Monzeglio si risentì dell’atteggiamento di Lauro, invitandolo ad uscire dallo spogliatoio: “Per adesso, Comandante, si accomodi fuori – ricorda Zontini, presente alla scena -  e  la smetta di questi apprezzamenti. Qui dentro comando io, sono io che dò gli ordini e muovo rimproveri, sono io l’allenatore ed il responsabile fino al termine della partita. Quando l’incontro sarà terminato, lei sarà padrone di fare tutto quello che vuole, a testa sua, ed anche di mandarmi via!”. La partita terminò in parità 1-1 con gol di Vinicio zoppicante. Monzeglio dopo la “sparata” contro Lauro restò per altre sei partite, ma a conclusione della  sconfitta interna con l’Inter alla “sedicesima”, dopo un colloquio tempestoso con Lauro, fu invitato a prendersi un poco di riposo: lo sostituì Amadei. Monzeglio fu premiato per i  suoi sette anni sulla panchina azzurra, con una medaglia d’oro. Spreconi. Ma poi tornò. Nella foto, Monzeglio e Lauro in panchina al Vomero.

COME VINICIO DIVENTO’ ORIUNDO (1955-56)  L’acquisto di Vinicio, uno dei più amati giocatori del Napoli, va ricostruito. In occasione dell’amichevole Roma-Botafogo, Lauro incaricò l’allenatore Monzeglio di visionare un giovane attaccante di origine italiana, Dino Da Costa, con ampi poteri di trattare e concludere l’acquisto, strappandolo alla Roma. Da Costa era corteggiatissimo dalla società giallorosa, ma Lauro tentò egualmente. O l'oriundo Da Costa oppure Vinicio che pure gli era stato raccomandato. Ma, una volta negli spogliatoi, a fine partita, Eraldo Monzeglio ebbe la conferma. Apprese che Da Costa  aveva già firmato con la Roma. Telefonò al presidente e Lauro gli rispose. “Erà, piglia un altro, chi vuoi tu, basta che è all’altezza. Vedi anche quel Vinicio”. Fu così che Monzeglio si orientò decisamente su Luis Amarante de Menezes Vinicius che lo aveva addirittura impressionato più di Da Costa. Nella stessa serata fu firmato il compromesso. Il prezzo,  50 milioni al Botafogo, piu 10 milioni al giocatore. A Vinicio (come fu ribattezzato a Napoli) venne però  contestata la qualifica di oriundo, alla quale il Napoli ci teneva molto per una questione di tesseramento. Stava, insomma, per saltare l’acquisto, in base ai regolamenti vigenti. Monzeglio aveva fatto presente che i dirigenti del Botafogo assicuravano che il giocatore aveva origini italiane. E Lauro non si arrese, mosse i suoi uomini e nel giro di una settimana presentò in Federazione un estratto di nascita dal quale risultava che il nonno di Vinicio, il signor Consalvo Abilio D’Amarante era iscritto fra i nati del Comune di Aversa il 5 marzo 1859. Automaticamente Vinicio fu iscritto nelle liste di leva  e gli venne riconosciuta la doppia nazionalità. Con la sua decisiva collaborazione, il parroco aversano aveva così risolto un grosso problema, consentendo al Napoli di tenersi un attaccante che si rivelerà uno dei più indovinati acquisti. Senza la qualifica di oriundo di Luis, il Napoli avrebbe dovuto rinunciare o a Vinicio o a Jeppson. Vinicio confermò personalmente la sua origine con questa dichiarazione: " E' stato già chiarito che il parroco don Graziano di Aversa ha rilasciato al Napoli il certificato di origine autenticato dalla Curia. In un registro della Parrocchia, in data 1859, risulta la nascita di Albilio Consalvo, padre di mia mamma e quindi mio nonno; e il mio bisnonno materno si chiamava Ignazio Consalvo. Tutto in regola, quindi". Ma nonostante queste dichiarazioni, il "caso Vinicio" provocò reazioni e inchieste in Brasile e in Francia (in vista del possibile e preannunciato impiego di Vinicio contro i francesi nell'imminente incontro tra le due nazionali B). "O Jornal" di Rio de Janeiro inviò alcuni suoi inviati a Para Minas per intervistare Gerardo Amarante de Menezes, fratello di Vinicius e quest'ultimo, sotto un titolo a tutta pagina manifestò la sua più grande meraviglia, dichiarando testualmente: "Non ho mai saputo che discendessimo da italiani". Di fronte a tante polemiche  sui "fabbricanti di nonni italiani" anche sui giornali francesi, alla fine la nazionale rinunciò a schierare Vinicio contro la Francia B. Il centravanti, comunque, fece di tutto per proclamare la sua "italianità". Non solo si fece fotografare per i  giornali col berretto da universitario, ma si candidò persino alle elezioni per le cariche direttive nell'ateneo napoletano, nella lista di "Juventus italica". Nella foto riproduciamo il manifesto elettorale comparso nel marzo del '56 sui muri di Napoli, con la candidatura ed il saluto di Vinicio agli universitari .

MALANDRINO ( DI NOME E DI FATTO) TRUFFO’ IL NAPOLI (1955-56) -  Nell’aprile del 1955, con Jeppson e Vinicio temporaneamente malandati,  si presentò in prova a Napoli un sudamericano, un certo  Malandrino, di nome e di fatto. Chiese un ingaggio di cinque milioni per due anni. Il Napoli prima tergiversò dubbioso sul valore dello straniero, poi accettò di sganciare i cinque milioni. Malandrino incassò e nella terra dei furbi, prima di dimostrare il suo vero valore, nel timore di  un fallimento,  fece il “colpo”. Mise in tasca l’ingaggio e scomparve. Dove? Non si è mai saputo.

ESPERIMENTO CON GLI ARBITRI STRANIERI (1955-56) - Nel finale del campionato 1955-56 la Federcalcio, di fronte ad una serie di errori e di polemiche per gli arbitraggi,  lanciò un nuovo esperimento: l'utilizzazione di arbitri stranieri in Serie A. La novità cominciò con gli arbitri austriaci. Il presidente dell'AIA definì l'esperimento quanto mai brillante. Furono impiegati dodici arbitri transalpini.
 
A S.SIRO 5-0 DEL NAPOLI SUL MILAN!  (1956-57)  Uno dei risultati più inattesi e clamorosi  - sia pure parziali - fu quello ottenuto dal Napoli a San Siro nella stagione  1956-57 (quarta giornata) contro il Milan di Buffon, Maldini, Schiaffino. Alla fine del primo tempo, Nicolò Carosio annunziò – via radio -  all’Italia del calcio che il Napoli, di Vinicio, Bugatti, Pesaola,  imbattuto in campionato, stava vincendo clamorosamente per 5-0 a Milano contro i rossoneri. Gol di Posio, e doppiette di Pesaola e Vinicio. Ma nella ripresa gli azzurri, paghi del netto, eclatante risultato, calarono permettendo al Milan di segnare tre gol con una doppietta di Schiaffino (un gol su rigore) e Galli. Nella stessa stagione da segnalare il 4-1 realizzato sul Palermo, quattro gol tutti di Vinicio (il precedente record era di Jeppson  che aveva segnato ben quattro gol in un 6-3 sull’Atalanta). Nella foto, a sinistra, il  portiere rossonero e della Nazionale , Buffon,  desolato a terra dopo uno dei due gol di Vinicio, assiste alla festa azzurra.

 


BUGATTI SUPERSTAR CON 38° DI FEBBRE
(1957-58) - Storica la partita di Bugatti a Torino del 24 novembre  1957. Il portiere azzurro vincitore del “Premio Combi” era emozionato di dover ricevere dalle mani del  presidente juventino Umberto Agnelli l’ambito riconoscimento, attribuito al miglior portiere del campionato precedente. Alla vigilia della partita si temette persino di dover rinviare la premiazione, a causa di un improvviso attacco febbrile che aveva colpito Ottavio Bugatti in albergo. Ma il portiere partenopeo, pur con 37,8 di febbre, volle scendere egualmente in campo e legittimò il “Premio Combi” con una prestazione sublime, la più bella della sua carriera, parando anche l’imparabile. Contro questa Juve di Boniperti, Sivori e Charles, il Napoli di Comaschi, Di Giacomo, Vinicio e Bugatti vinse clamorosamente per 3-1, con i gol di Vinicio, Novelli e Di Giacomo. Il gigante inglese Charles alla fine commentò:  "Con un altro portiere al posto di Bugatti avremmo vinto per 7-3. Mai visto un portiere così”. Ricordiamo un titolone di un giornale: “L’Ottavio volante”. Fu lo stesso campionato in cui, nella gara di ritorno con la Juve, Lo Bello arbitrò l’attesissima partita con migliaia di tifosi azzurri accovacciati sulla pista, disciplinati, a pochi passi dal terreno di gioco, per l’impossibilità di stare ammassati sulle tribune. Di fronte a questa folla straboccante – come raccontiamo a parte – il Napoli vinse per 4-3 con un gol all’85’ di Bertucco. E fu un’altra festa indimenticabile. Nella foto, la prima pagina del famoso settimanale "Calcio  Illustrato" celebra l'eccezionale  partita del febbricitante  Bugatti a Torino contro la grande Juve.

LA TRIBUNA STAMPA DEL S. PAOLO PER 8 GIORNALISTI !!! (1957) - Dopo una lunga gestazione (la prima pietra era stata posta da Alcide De Gasperi il 27 aprile del 1952), lo stadio "San Paolo" fu inaugurato ufficialmente con Italia-Svizzera (3-0), il 6 gennaio 1960, dopo circa dieci anni di lavori. ma aprì eccezionalmente prima, con Napoli-Juve (2-1) il 6 dicembre del 1959. Tra varie ristrutturazioni che hanno aumentato e diminuito il numero degli spettatori, il San Paolo in passato ha ospitato fino a 90 mila spettatori ufficiali, ma in pratica ne ha contenuti anche oltre 100 mila. Basti pensare alla partita dello scudetto 1989 contro la Fiorentina. Pochi sanno, però, che a fronte di una così larga disponibilità di posti, il progetto originario prevedeva quattordici posti per le Autorità (figuratevi, proprio a Napoli…) ed appena otto (avete letto bene) per la Stampa. Quando i giornalisti, presenti alla cerimonia di illustrazione del progetto dell’ing. Carlo Cocchia, chiesero stupiti e interessati come mai un numero così ridotto di posti per la Stampa si sentirono rispondere. “ A Napoli ci sono quattro quotidiani e due settimanali sportivi, avanzano due posti…”. Fu il giornalista Gino Palumbo a ricordare che avevano dimenticato tutti gli “inviati” che sarebbero piombati a Napoli per le partite. E si corse ai ripari. Questa è storia, non è un discutibile e improbabile aneddoto. Poi la tribuna stampa del San Paolo fu ulteriormente allargata e trasferita nella zona superiore (dov’è tuttora), per interessamento dell’allora presidente dell’Ussi, Mimmo Carratelli. Ma in cambio di un maggior numero di posti, i giornalisti ebbero il dono della pioggia (che attraversa ancor oggi la struttura metallica). Attualmente la tribuna stampa del San Paolo prevede la sistemazione di circa 500 giornalisti, per la precisione 476, nei tre settori, compreso quello riservato agli addetti alle televisioni e alle radio private. Un bel balzo in avanti da quegli otto posti progettati… A questo punto, bisogna  ricordare, anche ai numerosi giovani colleghi d-oggi, come era la cosiddetta tribuna stampa che i giornalisti napoletani lasciavano nel 1959, quella dello stadio del Vomero, attualmente il "Collana". Per entrare nella  Tribuna (dove accedevano anche i pochi addetti all’informazione), c’era un solo cancello dal lato dell’attuale Via Ribera ( a quel tempo, lo stadio del Vomero era l’ultima costruzione di Via Ribera. Gli attuali Vico Acitillo e Via Mascagni non esistevano ancora: era tutto terreno verso Fuorigrotta). Da quest’unico cancello entravano circa 10 mila dei complessivi 40 mila spettatori che conteneva lo stadio vomerese. Intuibile la ressa nelle gare importanti. Il "settore stampa" consisteva in un recinto grande più o meno quanto un pollaio, sistemato al centro della Tribuna e circondato da una semplice rete metallica, a strettissimo contatto con il pubblico. Facile immaginare le provocazioni, le “battute”, le accuse, gli sfoghi, a volte anche gli insulti dei tifosi che sedevano nei pressi della tribunetta, a volte per i più banali motivi, verso i giornalisti che sedevano (come tutti, del resto) sulla nuda pietra, uno addosso agli altri, in non più di una ventina. Era la tribunetta che ospitava, tra gli altri, Arturo Collana, Gino Palumbo, Ugo Irace, Carlo Di Nanni, Agostino Panico, Ciro Buonanno, Mimì Farina, Mario Argento, Pio Nardacchione, Giuseppe Filosa, Antonio Scotti, Cesare Marcucci, Beniamino Degni. I più giovani collaboratori dovevano arrangiarsi tra la folla, passando spesso per il botteghino. Per completezza dell’informazione, ricordiamo che allo stadio del Vomero si arrivava, oltre che con le poche macchine dell’epoca, solo con le funicolari e con i filobus, attraverso via Salvator Rosa. La motorizzazione di massa era ancora da venire. Nella foto, la prima tribuna stampa del S.Paolo, al centro il box per la televisione, all'epoca ce n'era una sola. Successivamente la tribuna riservata ai giornalisti fu traslocata più in alto, lasciando i propri posti in aggiunta alla Tribuna Autorita'.

L’EX MONZEGLIO PREFERI’ RESTARE IN ALBERGO (1958-59) - Caso più unico che raro, protagonista Eraldo Monzeglio, nell’incontro Napoli-Sampdoria (3-2). Tornava per la prima volta da ex, l’allenatore dei blucerchiati don Eraldo, già per sette anni tecnico del Napoli. Era un uomo duro, ma anche nostalgico, un sentimentale. Non se la sentiva Monzeglio di affrontare la sua ex squadra, troppo palpitanti i ricordi vissuti nello stadio del Vomero alla guida degli azzurri. D'intesa con i dirigenti blucerchiati, durante la partita restò così in albergo, il "Parker" al Corso Vittorio Emanuele. In panchina andò il suo vice, Gei.

CHE UMILIAZIONE: OTTO A ZERO DALLA ROMA! (1958-59)  In questa stagione il Napoli incassò una delle sconfitte più umilianti della sua storia: otto a zero sul campo della Roma. Pare che i giocatori azzurri non avessero gradito lo strombazzato rientro di Vinicio, dopo cinque settimane di riposo ricostituente (riportiamo il titolone di SportSud in prima pagina: “TORNA LUI!” e molti compagni di squadra remarono contro per dare una lezione a “lui” e al tecnico. Brutto derby di Pasqua. Vinicio accusò esplicitamente i compagni di scarso impegno, di essere stato abbandonato, senza un pallone utile da giocare, in un modo che sembrava volontario, premeditato. Il "clan di Comaschi" era più numeroso dei “fedelissimi” di Vinicio, che attraversava un momento nerissimo. Era il periodo delle turbolenze negli spogliatoi , mal frenate ( anzi spesso alimentate) dall’allenatore Amadei che si sentiva sicuro perché frequentatore mattutino delle colazioni del Comandante in costume adamitico sul terrazzo di Via Crispi (incurante della presenza delle suore nel palazzo prospiciente). Ma queste visite quasi quotidiane  non bastarono quell’anno ad Amadei per conservare il posto dall’arrivo di Frossi. Ormai la squadra non gli obbediva più, dilaniata da beghe, litigi   e persino botte. Nella foto, Lauro seminudo, durante una delle sue lunghe colazioni mattutine che precedevano i quotidiani  esercizi di ginnastica.

PER IL NAPOLI ANCHE UN DUELLO ALLA SPADA (1958-59) – Il Napoli fu anche la causa di una sfida a duello tra due noti e validissimi giornalisti dell’epoca, Gino Palumbo del “Mattino” e Antonio Scotti del “Roma”, quotidiano quest’ultimo di proprietà di Achille Lauro, presidente anche del Calcio Napoli. Diverse ovviamente le posizioni: Palumbo era libero di criticare (ma anche di elogiare)  il Napoli sui suoi giornali, mentre Scotti era condizionato dall’essere dipendente di un giornale di proprietà di  Lauro ed era costretto sempre ad ergersi da paladino della squadra e del Comandante. Fu così che nel corso di una polemica tra i due giornalisti, avendo come tema il Napoli,  Scotti lanciò accuse agli “scribacchini di Rotto San Carlo” (dove si stampava il “Mattino”). Palumbo rispose il 19 maggio del ’59 con un editoriale dal titolo  “La maschera e il volto” prendendosela con “un certo esse, che potrebbe significare servitorello e anche sciocco”, oltre ad essere l’iniziale di Scotti. Il sanguigno Tonino Scotti, figlio di generale, fratello di generale, collezionista di soldatini, di amore borbonico oltre che laurino, sfidò Palumbo a duello. Si affrontarono, alla spada, nelle campagne di Marano, all’alba del 27 maggio. Direttore il celebre spadaccino De Vecchi. Bastò una sola goccia di sangue – come stabilito - per porre fine al duello. Palumbo aveva scelto il difensivismo. Al terzo assalto la spada tesa cominciava a pesargli, l’abbassò e trasse in inganno Scotti. Quando la rialzò, la lama infilzò…involontariamente il polso destro dell’avversario. Finì tra cappuccini e brioches al Circolo della Stampa e le congratulazioni dei presenti a Gino Palumbo per la vittoria, alla vigilia del suo trasferimento al “Corriere della Sera”, dove il compianto giornalista napoletano concluse la sua gloriosa carriera, dopo aver guidato, in una felice parentesi,  verso record assoluti anche la “Gazzetta dello Sport”. Nella foto, il famoso giornalista Gino Palumbo con Vinicio, alle nozze di Louis celebrate nel 1957 nella Basilica di Piazza del Plebiscito.

QUELLA “CIUCCIUVETTOLA” DI FROSSI … (1959-60) - Con scarse prospettive di successo, arrivò Annibale Frossi sulla panchina che era stata di Amadei. Col caratterino del Comandante, l’ex campione olimpionico non aveva molte speranze di restare a lungo. A parte il suo credo difensivo che non piaceva al presidente, Frossi sorrideva poco, non volle fare il “cavalier servente” di Lauro, non si presentava al mattino a discutere di calcio e del Napoli, nel corso delle sedute di ginnastica cui il Presidente Onorario seminudo si sottoponeva sul suo terrazzo-palestra, non si metteva a sedere sulla panchina accanto a lui, bensì dalla parte opposta. Insomma, tutto il contrario del predecessore Amadei. Frossi, il “dottor sottile”, uomo di grande personalità e di studi non poteva abbassarsi a comportamenti non consoni alla sua dignità di uomo. Poi si aggiunsero i rapporti tesi con alcuni giocatori. E il suo destino apparve segnato. A Napoli durò solo 360 minuti di gioco. Dopo quattro sconfitte gli fu imposto un periodo di riposo, col ritorno – ovviamente – di Amadei. Lauro così spiegò la scelta: “ Cu chelli lente nere, Frossi me pareva ‘na ciucciuvettola. Amadei lo conosco bene, ho fiducia in lui. Ogni mattina veniva a fare colazione da me…” Tutto chiaro. Frossi continuò a lavorare come osservatore al Nord per meritarsi l’ingaggio. Nella foto, Annibale Frossi allenatore del Napoli, con il presidente Cuomo. In questa immagine Frossi non usa gli occhiali scuri...

PER VINCERE, LAURO INGAGGIO’ UNO PSICANALISTA… (1959-60) - Ancora scosso per l’infelice partenza del Napoli, il Comandante Lauro – alla ricerca di rimedi che non fossero solo il ritorno di Amadei – ne pensò una delle sue. Decise di ricorrere ad un’indagine analitica della psiche di ogni giocatore. Insomma, il Napoli doveva essere …psicanalizzato. E il 12 ottobre 1959 cominciò la sua opera il serafico psicanalista dott. Luigi Ammendola. Iniziarono subito le consultazioni. Ogni giorno un paio di giocatori venivano interrogati dallo psicologo, alla ricerca dei travagliati pensieri che ottenebravano le loro menti, per far ritrovare nuovo vigore fisico. La trovata geniale del Comandante non provocò effetti pratici, ma solo sorrisi in tutto il mondo calcistico. Alla fine del trattamento, il dott. Ammendola rilevò che non era il caso di scomodare la psicoanalisi per i problemi che assillavano il Napoli. Gli azzurri erano sanissimi anche nello spirito, sicchè il dottore dopo due mesi e mezzo se ne andò per i fatti suoi,  dopo aver presentato la  parcella: un milione e rotti di compenso. Non c'era necessità di una cura. Ma quante frottole poi dissero di aver raccontato i giocatori al “mago” Ammendola! Dopo di che il Comandante…ripiegò sulla benedizione del campo. Sempre nel 1960, officiante padre Emanuele Ros, spagnolo ed amico dell’indimenticabile portiere  iberico Zamora, allo stadio San Paolo fu impartita la divina benedizione, presenti Lauro “onorario”, il presidente Cuomo e l’allenatore  Amadei. Ma non bastò poi ad evitare la retrocessione.

IL COMANDANTE CONSIGLIO': “ QUESTI DEVONO MANGIARE PASTA E FAGIOLI!” (1960-61) - Da segnalare, sempre a proposito di Lauro, il “quadretto” che si svolse nel ritiro di Sorrento. Una sera arrivò Lauro, accompagnato dal dott. De Carlo, un altro “specialista” che per volere del Comandante praticava determinate cure di ricostituenti ai giocatori  perché acquistassero energie. Lauro, carattere da vero capo, giunto in albergo notò che i giocatori stavano consumando per la cena una semplice minestra in brodo. Allora sbottò: “Ma come si fa a giocare, mangiando questa roba?”. E rivolgendosi al tecnico Renato Cesarini continuò: “Tu devi dare loro da mangiare grandi piatti di maccheroni, di pasta e fagioli o altro. E allora vedrai come corrono la domenica!...”. E Cesarini di rimando: “Ma guardi, presidente, che per un atleta l’alimentazione deve essere sostanziosa, ma non ingombrante” E Lauro rivolgendosi al dott. De Carlo: “Ho ragione o no? Non ti sembra che con una pasta e fagioli correrebbero meglio?”. “Certo…” rispose il dottore imbarazzato, di fronte alla singolare  tesi del suo "datore di lavoro". Al che Lauro sottolineò a Cesarini: “ Ma vuoi forse saperne di più tu di uno che è stato per tanti anni all’Università?...” E Cesarini, sarcastico, chiuse così la discussione. “ Ah! Se è per questo, le dirò che io ho passato quasi una vita intera all’Università, perché ci abitavo proprio di fronte…” Le parole della “scenetta” sono fedeli perchè  riportate nei suoi ricordi dal dott.  Athos Zontini (per 11 anni giocatore azzurro e per 17 medico sociale) presente alla scabrosa scena nell'albergo di Sorrento.

IL SALTO E LO SCHIAFFO DI COMASCHI (1960-61)  Clamoroso, quasi da record, il salto in lungo che vide protagonista il terzino azzurro Comaschi nel San Paolo da poco inaugurato. Per rispondere ad un gruppo di pseudo-tifosi che frequentava gli allenamenti solo per beccarlo, il focoso terzino napoletano, perduta la pazienza, scavalcò con un salto ritenuto impossibile il fossato che divideva la curva dal terreno di gioco, dando una solenne lezione ai suoi contestatori, con una furiosa scazzottatura. Il sanguigno difensore azzurro fu anche protagonista di un altro duro intervento in …borghese. Fu quando per una questione di gelosia prese a schiaffi in Via Chiaia, a Napoli, il figlio minore di Achille Lauro, Ercolino, in gentile compagnia. Nella foto, Comaschi abbracciato da un tifoso azzurro a fine gara. Al suo fianco Vinicio.

VINICIO LIQUIDATO PER UNA QUESTIONE DI GLOBULI (1960-61) - Fu, questa, anche la stagione della discussa e impopolare liquidazione di Vinicio, avviato a Napoli sulla via del declino, accusato di scarso rendimento e di egoismo nel gioco. Da sottolineare la crisi di pianto di Louis mentre chiedeva al Comandante di lasciarlo fuori squadra per le sue condizioni critiche: “Così non posso continuare…”. Si stava ripetendo il caso Jeppson, di qualche anno prima: tutti contro un uomo (tecnico e diversi compagni) , e un uomo solo contro tutti. Mentre la tifoseria azzurra scendeva in piazza per protestare dietro striscioni del tipo “Vendetevi l’anima e non Vinicio!”, il comandante Lauro, con l’assenso di Amadei,  cedette al Bologna Louis, vittima di una flessione fisica. Eppure Nicolò Carosio in una radiocronaca  aveva definito Vinicio  “prodigioso calciatore”. Il presidente giustificò la cessione con una strana storia di squilibrio tra globuli rossi e bianchi, problema che – chissà perché - sparì appena Vinicio lasciò Napoli, visto l’eccezionale rendimento successivo dell’attaccante, soprattutto a Vicenza, dove diventò capocannoniere del campionato. Amadei addirittura gli aveva lanciato addosso l’ipotesi che fosse sifilitico! Che bell’ambiente in quegli anni. Con la partenza di Vinicio, il Napoli realizzò una delle campagne acquisti più fallimentari. Arrivarono in cambio dal Bologna Pivatelli, Bodi, Mihalic e 122 milioni, poi furono acquistati anche la mezzala della Fiorentina e della Nazionale Gratton per 90 milioni (con problemi fisici, un’altra grande delusione), quindi Tacchi e Girardo, ma il Napoli finì malinconicamente in B, col pianto ed il malore finale di Sallustro, allora direttore del San Paolo,  che per salvare il salvabile aveva accettato di sostituire sulla panchina Cesarini ed Amadei (il frascatano farà meglio  qualche anno dopo allenando non calciatori, ma calciatrici). Nella foto, a destra, Pivatelli, nuova   punta del Napoli al posto di Vinicio: una grande delusione. In alto, Luis segnava anche così, a volo d'angelo (contro la Juve al Vomero).

INGHIPPI PER PESAOLA E PER LA PROMOZIONE (1961-62) - Bruno Pesaola cominciò in maniera singolare la sua carriera di allenatore in azzurro, a 37 anni, dopo aver militato come calciatore nel Napoli dal 1952, per otto stagioni. Nel 1961-62 il Napoli in B cominciò la stagione in maniera disastrosa, sotto la guida tecnica di Fioravante Baldi: quart’ultimo posto alla seconda di ritorno. Nel timore del peggio, si corse ai ripari. Licenziato Baldi, di fronte al no di Amadei, Monzeglio e Frossi, si pensò al “petisso” che a quel tempo faceva esperienza con la Scafatese in un campionato dilettanti. I dirigenti di Scafati – tifosi anche del Napoli – non si opposero al trasferimento anomalo e fuori stagione. Pesaola in poche ore firmò ed si recò al San Paolo, ma non avendo il patentino di allenatore non poteva sedere in panchina. Fu allora trovata una soluzione: il “petisso” venne nominato consigliere del Napoli e come tale andava in campo in qualità di  “accompagnatore”. Gli effetti benefici furono immediati. La squadra risalì piano, piano, con il tatto e l’abilità di Pesaola ed anche con un pizzico di fortuna, come accadde all’Olimpico nel derby con la Lazio: l’arbitro Rigato non vide entrare nella porta azzurra  una punizione-bomba di Seghedoni che aveva sfondato la rete. Finì 0-0. Il rilancio dei partenopei continuò fino all’ultima giornata, quando il Napoli si giocò il ritorno in Serie A a Verona, contro una diretta concorrente per la promozione. Gli azzurri vinsero per 1-0 con gol di Corelli e conquistarono la A. Ma per festeggiare, i giocatori ed i tifosi dovettero attendere l’esito di un processo che il Napoli fu costretto a subire per presunto illecito. L’accusa incolpava il dirigente Antonio Corcione ed il napoletano di Verona, Antonio Peluso, di aver contattato un amico dei giocatori veronesi, Pasquale Principe, allo scopo di addomesticare l’incontro. Cifra: due milioni e mezzo. Altra accusa: i giocatori del Verona, Postiglione, Bertucco e Maioli, ex azzurri, erano stati minacciati di morte per telefono se non avessero favorito il Napoli. Tra gli indagati anche Pesaola, accusato di essere stato testimone di strani contatti prima della partita. Poiché dell’illecito si sospettava in anticipo, prima ancora della partita, l’Ufficio Indagini raccolse prove di incontri, di telefonate, di accordi, furono messi insieme testimonianze, nastri magnetici che alla fine invece di inchiodare il Napoli, d’incanto,  risultarono “insufficienti” o “irriconoscibili” e “illeggibili”. Opera abilissima di Gigino Scuotto che gestì la raccolta delle controprove con grande efficacia, intelligenza ed astuzia. Sicché alla fine la sentenza decise: a Corcione, colpevole, la squalifica a vita per il troppo…amore verso il Napoli (impiegherà molto per farsela ridurre) , tre anni a Peluso. Era un'iniziativa personale. Non condannabile, invece,  nessuno del Napoli. Così gli azzurri tornarono in A per merito di Scuotto non meno che di Pesaola. Ma restarono molti sospetti. Anche il dubbio che il Napoli, uscito miracolosamente indenne e salvato dalla retrocessione grazie ad un processo molto discusso, fu poi …aiutato dal “palazzo” a ripiombare in B nel campionato successivo. La ciliegina sulla cassata azzurra fu costituita dalla conquista insperata anche della Coppa Italia, contro tutti i pronostici. Nella foto, Bruno Pesaola mentre dà istruzioni agli azzurri.

CANE’  FU ACQUISTATO  DA LAURO IN  FOTOGRAFIA  (1962-63) - E’ accaduto anche questo: Faustinho Canè, l’attaccante brasiliano diventato napoletano d’adozione dopo tanti anni di successi in maglia azzurra, fu acquistato in fotografia dal Comandante, senza chiedere consiglio a nessuno. Andò così. Lauro chiamò Gigino Scuotto e gli disse che un procuratore di giocatori brasiliani, tale Josè de Gama, gli aveva  scritto proponendogli l’acquisto di alcuni calciatori carioca, inviandogli anche delle foto, come fossero delle pin-up girl. Sarebbero venuti a Napoli a provare senza alcun impegno, con la sola spesa della metà del prezzo del viaggio. Lauro mostrò a Scuotto le foto dei giocatori e indicandogli quella di Canè, gli disse : “Vedi, Gigì, io voglio prendere chisto, perché è ‘o cchiù brutto. Chist’è niro, gli avversari si spaventeranno e lui farà i gol. Pigliàmmelo”. Fu così che Canè (che era sì di colore nero, ma non era per niente brutto nei suoi lineamenti) venne a provare col Napoli. Convinse l’allenatore Pesaola e fu acquistato per 40 mila dollari. Ma ebbe un avvio difficile: nelle prime sette gare non segnò un solo gol e subì molte critiche. Poi convinse tutti. Era il secondo coloured del Napoli, dopo il boliviano La Paz. Alla fine della sua carriera napoletana, dopo aver giocato dieci stagioni in azzurro, totalizzò 217 presenze e 56 gol. Pochi sanno che il nome Canè è solo il nomignolo datogli in Brasile quando era piccolo e che vuol dire proprio “piccolo”. Il suo vero nome è Jarbas Faustinho. Nella foto, Canè e Sivori.

UNO STRANO DOPING DOPO LA VITTORIA DI MILANO (1962-63) - Non poteva mancare nella tormentata vita del Napoli anche un caso di doping. Accadde il 27 gennaio 1963, a San Siro, vittoria degli azzurri per 1-0 con gol di Corelli. Prima della partita, i giocatori napoletani avevano ricevuto la loro porzione di simpamina (o qualcosa del genere, uno stimolante) quando il massaggiatore Beato, trafelato, irruppe negli spogliatoi, rivelando di aver visto gli addetti ai controlli antidoping. Ma ormai non c’era più niente da fare per rimediare. Gli azzurri scesero in campo, vinsero, e preoccupati si recarono per le operazioni antidoping all’Hotel Gallia. Ma si cercò di correre ai ripari. Ci furono scambi di provetta, travasi vari. Alla fine si trovò incriminato l’innocente Pontel (che era il portiere di riserva di Cuman…) insieme con Molino, Rivellino, Tomeazzi, Fraschini, Rosa e Tacchi. Ma solo i primi quattro furono condannati ad un mese di squalifica, gli altri tre vennero assolti. Anche stavolta c’era stata la mano magica dell’astuto Gigino Scuotto. Tre dei contenitori, infatti,  diedero agli esami successivi di laboratorio – quelli decisivi – risultati incredibili. Risultò tutt’altro che urina umana. La verità è che durante il trasporto delle provette in taxi verso il laboratorio, c’era stata una sosta per prendere un bel caffè e la borsa con i liquidi era rimasta in auto. Fu il sole di quel giorno? Fu il calorifero sul quale venne poi sistemata “incautamente” la borsa? Ci fu qualche sostituzione? Molti i sospetti, una sola certezza: una parte dei giocatori azzurri se la cavò, dopo gli esami di quel liquido così strano. Forse la sentenza complessiva fu mite anche per non rovinare del tutto il Napoli. Grazie ancora a Gigino Scuotto, grande "manovratore"! Tutto ciò avvenne nella disgraziata stagione in cui, il 28 aprile 1963, a Napoli si registrò la colossale invasione di campo nella gara con il Modena, con gravissimi danni alle strutture del San Paolo e tanti feriti (e di cui parliamo a parte nelle “pagine nere” del tifo). Nello stesso giorno degli incidenti di Fuorigrotta, a Salerno nell’incontro col il Potenza i tifosi granata ritennero di essere stati privati di una vittoria importante per la promozione in B, con conseguenti incidenti e soprattutto con un morto e 35 feriti. Nella foto, Gigino Scuotto (artefice della mite punizione nel caso doping) in sede insieme con l'allenatore del 1963-1964, Roberto Lerici.

JULIANO PRESO PER 11 MAGLIETTE E DUE PALLONI ... MAI VISTI(1962-63) - Antonio Juliano debuttò ventenne in Serie A contro l’Inter al San Paolo il 17 febbraio del 1963. Unica presenza. Tanto nefasto il risultato (cinque a uno per i nerazzurri), tanto luminosa la carriera. Fu schierato da Pesaola all’ala sinistra e naufragò con tutta la squadra, ormai avviata verso la B. Di carattere volitivo, dotato di molta dignità, con una grande grinta, diventò ben presto non solo abile regista, ma anche  un uomo guida della squadra: nelle trattative con la società per il reingaggio era l’ultimo a firmare, ma il primo a presentarsi e a partire per il ritiro. Nel suo periodo di fulgore, conduceva lui le trattative con la presidenza per i reingaggi di tutta la squadra. I maligni sostengono che sapeva vendere bene la sua “intermediazione” . Cresciuto tra i boys del Cirio (Quarta Serie) passò alla Fiamma Sangiovannese del patron Giovanni Russo (che custodiva gelosamente il primo cartellino da calciatore di Totonno). e da qui finì tra i ragazzi del Napoli nel 1960. Il racconto di Giovanni Russo (che ha compiuto cent'anni il 5 agosto del 2007):  “Ciro, il padre di Juliano, era stato un bravo ciclista. Mi disse: Tonino continuerà a giocare a pallone solo se lo prendete voi. Gigino Scuotto, dirigente del Napoli e mio amico, mandò  Giovanni Lambiase, il capo del settore giovanile sul campo del "Macello" dove giocavamo e Tonino fu subito preso dal Napoli (anche se Lambiase quel giorno era andato soprattutto per vedere un certo Caputo n.d.a.). Mi promisero in cambio due palloni e undici maglie: mai visti”. Quando nel 1965 Juliano giocò al fianco di Sivori e Altafini, mostrando tutto il suo valore, era quotato  sul mercato 200 milioni, ma tutto quello che guadagnava lo passava a mammà e continuava a dare una mano nella salumeria del padre a San Giovanni a Teduccio. I duento milioni lievitarono a 800 nel 1969, quando Carraro, allora presidente del Milan, offrì a Ferlaino quella cifra record, ma Juliano - primo caso di rifiuto al trasferimento, benchè non vi fosse ancora la firma contestuale - si oppose e poco più tardi  confidò: " E che , andavo a fare il servitore a quello là?" Ovviamente "quello là" era Rivera. Juliano giocò col Napoli 502 gare, di cui 394 in campionato. Un particolare che pochi conoscono: Juliano, pur essendo nato il 26 dicembre del 1942, è stato registrato all'anagrafe il 1 gennaio del 1943, come spesso accadeva in passato (per ritardare di un anno la chiamata al servizio militare di leva). In conseguenza di ciò tutti gli Almanacchi riportano come data di nascita una data errata. Nella foto, Juliano giovanissimo nel campionato di B del 1963-64.

LO BELLO (3 RIGORI) FECE INFURIARE IL MINISTRO (1966-67) – Scoppiò nel 1967 la rabbia della Spal contro Lo Bello ed il Napoli. Era il 5 febbraio, una giornata fredda, ma a Ferrara rimasero gelati soprattutto dai tre rigori concessi contro la Spal dall’arbitro siracusano, tutti realizzati da Altafini  che permisero al Napoli di vincere per 4-1 (più un gol di Juliano ed un’autorete di Nardin). Fu un confronto diretto, e a distanza, anche tra Lo Bello ed il pubblico estense che  gridava “Duce, Duce!”, "Rigore, rigore!” e l’imperturbabile Lo Bello lo... accontentava, fischiando penalty, uno dopo l’altro. Presidente di quella Spal era Mazza, importante dirigente della Lega che sedeva tra l'altro in panchina. Dopo l'ennesimo rigore dette in escandescenze e don Concetto fu costretto a cacciarlo. Fecero, però, subito una norma che permetteva ai dirigenti di Lega di stare comunque a bordo campo. Era un bel Napoli, quello di Sivori, Altafini, Juliano, Bianchi, Canè che a Ferrara meritò ampiamente il successo. Ma Lo Bello fu contestato e minacciato anche dopo il triplice fischio finale. Rimase negli spogliatoi oltre tre ore, dopo la fine della gara. La contestazione continuò successivamente in maniera insolita. Il ministro socialdemocratico alle Finanze, Luigi Preti (già notissimo esponente del Fascio ferrarese durante il Regime), anche lui “scosso” dai tre rigori  concessi da Lo Bello, smise i panni di tifoso, indossò quelli di politico ed inviò i propri uomini per un’ispezione fiscale e patrimoniale a Siracusa nella speranza di cercare qualche irregolarità sul conto dell’arbitro siciliano. Fece cilecca. Tutto in regola. Nel mondo del tifo può accadere anche questo. Racconta Rosario Lo Bello: " Quando anche mio padre fu eletto in Parlamento, trovò la maniera per prendersi la rivincita con Preti. Gli piaceva andare a cercare quell'uomo politico e rinfacciargli la scorrettezza: potete essere certi che non lo faceva con parole gentili". A proposito di Rosario Lo Bello, anche il figlio di Concetto concesse tre rigori al Napoli, ma in casa il 10 febbraio 1991, contro il Parma. Il Napoli vinse 4-2: due rigori furono trasformati da Maradona ed il terzo da Careca. Nella foto  Concetto Lo Bello e l'ex ministro Luigi Preti.

QUELLO SPENDACCIONE DI GIOACCHINO… (1967-68)   Tramontata la stella di Roberto Fiore, in aperto dissenso con Achille Lauro, si affacciò alla ribalta il primogenito del Comandante, Gioacchino “il buono” per il suo carattere gioviale, cameratesco, avvolto nel fumo del suo eterno sigaro, personaggio munifico, ma anche sciupone. Orologi di marca in regalo ai giocatori, a qualcuno anche la Porsche, gioielli alle signore, denari distribuiti ad ampie mani. Quando esordì al “Gallia” di Milano per il mercato calcistico, lievitarono i prezzi (anche quelli delle "gentildonne"). Ma gli acquisti furono eccellenti: arrivarono Pogliana, Claudio Sala, Barison e soprattutto dal Mantova Dino Zoff. Per poco fallì l’acquisto di Gigi Riva. Oltre il prevedibile però andò la campagna per gli ingaggi. Da raccontare il caso Barison. L’attaccante era giunto a Napoli fortemente raccomandato da Altafini che voleva continuare a tenere affettuosamente unite le due famiglie. “Zio Josè” consigliò al suo amico di chiedere a Gioacchino Lauro non meno di 15 milioni e mezzo di ingaggio. “Sedici o diciassette – disse – andranno benissimo”. Barison fece tesoro della raccomandazione e tenne bene a mente le cifre da chiedere, ma si sentì proporre dal magnanimo neopresidente: “Guè, nun fa storie cu’ mme. O ti pigli ventidue milioni, o nun me scuccià. Non ne facciamo niente!”. Proverbiali anche i suoi affari privati, con ardite e infelici speculazioni, come l’acquisto di ventimila galline ovaiole, di difficile collocazione. Addirittura l’arrivo davanti alla villa di Via Crispi di un camion con un armadio di lusso zeppo di sigari avana, di gran marca,  ben sistemati nei vari cassetti. Questo era il personaggio, gioviale, ma anche irresponsabile, forte delle spalle di papà. Raccontava il compianto collega Enrico Marcucci, da ragazzo suo compagno di giochi e di avventure, che andavano insieme a cinema con i soldi che erano destinati all’affrancatura delle “raccomandate” di famiglia (per fortuna non quelle della Flotta…). Le buste, prive dei francobolli, venivano imbucate nei tombini. Negli anni successivi le esigenze ovviamente  erano destinate ad aumentare. Se Gioacchino aveva bisogno di soldi, acquistava (appoggiandosi al conto in Banca dell’ignara famiglia) qualche auto e la rivendeva dopo poco, oppure presentava favolosi conti per riparazioni meccaniche per ampliare il suo assegno mensile di 400 mila lire. Un personaggio incontrollabile fino in fondo. Così Lauro, dopo avergli regalato la poltrona di presidente, gli  tolse il giocattolo, per evitare guai peggiori, visto che gli ufficiali giudiziari erano alla porta della Società. E subito dopo il Comandante fu costretto anche ad interdirlo per bloccare le pressioni dei creditori. Lo “scoperto” a quel tempo era di sette miliardi. Poco dopo l’eterno ragazzo di Via Crispi finì nella tomba, ad appena  50 anni, per un male incurabile. Nella foto Gioacchino Lauro allo stadio San Paolo.

UN EX COLONNELLO SQUILIBRATO SPARO’ AGLI AZZURRI (1967-68) - Durante una tournèe di fine stagione in Brasile, il Napoli mentre soggiornava a Caritibu, la capitale dello Stato del Paranà, patria di Dirceu, scampò in maniera fortunosa ad un attentato. Accadde che Barison litigò giocando a carte con un tizio, ex colonnello, ex reduce dalla battaglia di Montecassino dove, nella seconda Guerra  Mondiale, aveva patito una ferita al cervello. L’ex colonnello, dopo il  litigio con Barison   meditò una spedizione punitiva che realizzò dopo poche ore. Irruppe nell’hotel  “Guaira Palace”, dove il Napoli era in ritiro, e cominciò a sparare all’impazzata con una pistola. Fu un vero miracolo se non colpì nessuno prima di fuggire. Il segretario del Napoli, Enrico Zuppardi, capo comitiva, subordinò– come ricorda Carlo Iuliano responsabile dell’Ufficio Stampa – l’effettuazione dell’amichevole, fissata per il giorno dopo, alla cattura di quello squilibrato. Cosa che avvenne in tempi  molto brevi. Nella foto, Carlo Juliano, a lungo  capo dell'Ufficio Stampa.

TRA I PUGNI L’ADDIO DI SIVORI (1968-69) - Fu la stagione dell’addio di Sivori. Il 1 dicembre del ’68 al San Paolo arrivò la Juve di Heriberto Herrera, nemico giurato di Sivori, che aveva lasciato la Juve proprio per i dissidi col il mister paraguaiano. L’allenatore aveva disposto per il cabezon una marcatura stretta, al di là del lecito. Gli azzurri, nonostante le durezze dei bianconeri, pareggiarono per poi passare in vantaggio e vincere con una doppietta di Montefusco (2-1). Sivori, che vedeva realizzarsi la sua grande vendetta, cominciò a provocare il suo angelo custode Favalli: tunnel, piroette, dribbling, conditi da “paroline”. A pochi minuti dalla fine del primo tempo, Sivori effettuò un tunnel accompagnato da un “olè”, poi, raggiunto il pallone, si fermò e guardò indietro la sua vittima che – vistosi irriso – piombò addosso a Sivori. Caddero entrambi a terra, si scalciarono, ma Favalli restò steso come se fosse stato investito da un camion. Panzanato che era nei paraggi, sussurrò qualcosa a Favalli, poi gli appoggiò una scarpetta sulla testa, provocando la reazione di Salvadore e Leoncini. Questi aggredirono alle spalle in difensore azzurro con una gragnola di pugni. Trascorsero tre minuti per sedare il pugilato in campo, con la collaborazione anche della Polizia. Poi Pieroni espulse Sivori, Panzanato, Salvadore ed il paciere Chiappella, ma mentre il gruppetto lasciava il campo, Panzanato ebbe un nuovo scatto d’ira nei confronti di Salvadore, che rientrò negli spogliatoi in barella. A Panzanato vennero applicati tre punti di sutura al labbro, mentre per  Salvadore, ricoverato poi alle “Molinette” di Torino, furono necessari vari punti di sutura per spacco del sopracciglio e della bocca. Pesantissime le punizioni: 9 giornate di squalifica a Panzanato, 6 a Sivori, 4 a Salvadore, 2 a Chiappella. Pochi giorni dopo, il 7 dicembre, moriva prematuramente, a 48 anni, un altro presidente azzurro, Corcione, molto legato a Sivori. In contemporanea, a causa della lunga squalifica, Omar (33 anni) annunciava il suo ritiro dal calcio. Il 22 dicembre si recò allo stadio, in occasione di Napoli-Atalanta, e salutò i compagni ed il pubblico che gli tributò un applauso lungo 11 minuti. Si concludeva così l’avventura cominciata nel 1975, 63 presenze, 12 gol. Omar era stato acquistato da Fiore dopo il gran ritorno in Serie A ed affiancato ad un altro grande campione, Josè Altafini. Proprio quell’anno la Juve doveva disfarsi di Sivori, in rotta con l’allenatore Heriberto che pretendeva che Omar si allenasse come gli altri. Per l’acquisto del cabezon scese in campo Achille Lauro. Il giocatore era stato valutato 300 milioni, il Comandante intervenne direttamente su Agnelli, strappando un prezzo di favore, 90 milioni, ed in cambiò acquistò dalla Fiat i motori per le sue due navi in costruzione, l’Angelina Lauro e l’Achille Lauro. Quando il campione argentino arrivò alla stazione di Mergellina, fu miracolosamente salvato da una folla di 10 mila tifosi che erano straripati fin sui binari. Dopo il suo ritiro dal calcio, Sivori restò molto legato a Napoli. Le sue visite alla città furono frequenti. Nella foto a destra, Panzanato sferra un "sinistro" a Salvadore, mentre i due stanno rientrando negli spogliatoi. Nell'altra foto, Sivori se ne va.

IL PANORAMA NEGLI OCCHI E LA NEBBIA NELLA TESTA ( 1968-69) - Napoli, una città che – nonostante le sue cento emergenze – ha sempre conquistato, in passato ed oggi, giocatori e i dirigenti che hanno militato in azzurro. Molti sono rimasti a vivere stabilmente in questa città piena di problemi e contraddizioni, molti altri vi tornano volentieri e spesso anche per trovare i figli che qui si sono sistemati. Qualche nome: Innocenti, Sentimenti II, Suprina, Vinicio, Pesaola, Canè, Jeppson, Vinazzani, Chiappella, Savoldi, Moggi tra i maggiori. Eppure qualcuno non ha apprezzato, non diciamo lo stile di vita dei napoletani – il che è sempre soggettivo – ma addirittura l’indubbia bellezza naturale del posto. Da segnalare la frase che negli Anni Sessanta, durante la sua permanenza a Napoli il difensore Aristide Guarneri, già punto di forza della pluri-scudettata Inter di Herrera e poi del Bologna, pronunciava affacciandosi sul Golfo dal balcone esclusivo del suo prestigioso palazzo in Via Petrarca, quello abitato per anni dai neo acquisti azzurri, su indicazione del Calcio Napoli. “Ah, quella bella nebbia di Cremona! …”. Proprio così esclamava Guarneri, incredibilmente colpito da irrefrenabile nostalgia, e non certo per ironia, per niente sfiorato dalla indiscutibile bellezza di quel panorama sul Golfo riservato a pochi e facoltosi privilegiati. Lo riferiamo senza commenti. Ma ricordiamo in proposito l’esortazione (inserita poi tra i detti latini) che Cristo fece ai suoi discepoli.: "Nolite dare sanctum canibus, neque mittatis margaritas vestras ante porcos..” ovvero tradotto in italiano ad uso di certi denigratori: "Non date ciò che è santo ai cani e non gettate le vostre perle ai porci, perché non le calpestino.”. Non a caso, il rigido Guarneri restò a Napoli una sola stagione. Poi risalì nelle brume della sua amata Padania.

FERLAINO PRESO A SCHIAFFI PER COLPA DI LAURO (1970-71) - Singolare episodio al “mercato del calcio” nell’albergo milanese “Gallia”. Ferlaino aveva già chiuso col il  Verona per  Clerici (che doveva poi venire a Napoli nel 1973, prelevato dalla Fiorentina), quando gli arrivò una telefonata del Comandante: “ Senti Ferlaino,  ho saputo che vuoi acquistare Clerici. Se lo compri lo fai a titolo personale. Altrimenti è guerra!”. Ferlaino era tra due fuochi: da una parte l’ira del Comandante, presidente onorario ma azionista e attento ai bilanci,  e dall’altra il presidente del Verona, Garonzi ed il procuratore  Crociani con i quali erano stati definiti tutti i dettagli del trasferimento di Clerici. Ferlaino invitò allora Garonzi a fargli vedere un attimo la bozza del contratto firmato e una volta avutolo tra le mani disse: “Non se ne fa niente, scusate  e arrivederci”, quindi strappò il contratto a pezzi. Più di Garonzi si risentì Crociani che in pochi secondi vedeva svanire l’affare ed il lauto compenso di intermediazione. Crociani balzò su Ferlaino e gli affibbio un sonoro ceffone. Meglio uno schiaffo che la rottura col Comandante, dovette pensare Ferlaino che seguiva passo passo i bilanci del Napoli, nonostante fosse... impegnato con la nuova famiglia (dopo la scomparsa di Donna Angelina). Da poco aveva sposato la seconda moglie. la bellissima Eliana Merolla, in arte Kim Capri. Il matrimonio, un po' contestato in famiglia, con una ragazza di 50 anni più giovane, fu celebrato a sorpresa nella chiesetta "San Benedetto" all'Arco Mirella alle 23,30 nel '70. Nella foto, Lauro sposo.

LE CORNA DI CHINAGLIA PER LO SCUDETTO PERSO A  NAPOLI (1972-73) - Un campionato deludente degli azzurri e salvezza ottenuta con difficoltà. Basti pensare che il Napoli riuscì a segnare il suo primo e ultimo gol in trasferta solo alla penultima giornata, con Ferradini, a Marassi. Da segnalare in quella stagione anche la vendetta tremenda che gli azzurri riservarono alla Lazio privandola dello scudetto negli ultimi minuti del campionato. Accadde che nel derby d’andata, il 21 gennaio del 1973, i laziali non solo si impegnarono per umiliare il Napoli (3-0), ma lo dileggiarono apertamente. Dopo il suo gol all’87’ Chinaglia si avvicinò a Vavassori che aveva avuto difficoltà a marcarlo e l’apostrofò:”Missione compiuta. Con questa mia rete ho messo il timbro sulla retrocessione del Napoli” (eppure mancavano ancora 15 partite alla fine). Nel sottopassaggio ci fu un alterco tra i due, con scambi di calcioni ed insulti. Il difensore napoletano, a suo volta, minacciò: “Ci rivedremo a Napoli, nella partita di  ritorno!”. E così fu. Al San Paolo, all’ultima giornata, il Napoli si presentò già salvo, mentre la Lazio era terza in classifica (43 punti) alla pari con la Juve e ad un solo punto dal Milan capolista (44 punti). Sentiva profumo di scudetto. Al 62’  il Milan perdeva a Verona 3-1, la Juve pareggiava a Roma 1-1, la Lazio era pari col Napoli 0-0. Si profilava uno spareggio a tre per lo scudetto. Ma se la Lazio avesse vinto avrebbe potuto addirittura conquistare il titolo. Doveva, però,  fare i conti con un Napoli vendicativo. Gli azzurri di fronte alle bellicose intenzioni finali della Lazio risposero con ardore – Vavassori in testa – in cerca del successo. Lo ottennero a tre minuti dalla fine con Damiani che realizzò così la minacciata vendetta azzurra. La Lazio perse lo scudetto che andò inaspettatamente alla Juventus, vittoriosa sulla Roma all’Olimpico, mentre il Milan smarrì il primato perdendo a Verona 5-2. A fine gara, al San Paolo, Chinaglia, dimenticando i precedenti, le offese e le minacce  rivolte agli azzurri a Roma nella vittoriosa gara d’andata, sollevò in alto, all’indirizzo della folla che festeggiava, il suo braccio destro, facendo il segno delle corna. Per fortuna dagli spalti non ci fu la reazione temuta. Restò l’atto antisportivo di un giocatore che pur era stato lanciato a Napoli dalla seconda squadra cittadina. Il noto giornalista Gianni Brera sostenne subito sul suo giornale che gli azzurri furono foraggiati da un’altra squadra per impegnarsi allo spasimo contro la Lazio. Versione poi confermata negli anni successivi. Tra il primo e il secondo tempo alcuni giocatori laziali, in effetti,  andarono a parlare con Juliano per "ammorbidire" con un premio gli azzurri. Ma Juliano - come ha rivelato anche Vincenzo D'Amico in Tv - disse: "Ci dispiace, ma la Juve è arrivata prima di voi, dovete accontentarvi del secondo posto". Nella foto, Chinaglia, grande protagonista della Lazio di Maestrelli.

IL SEGRETO DI MISTER VINICIO (1973-74) - Vinicio allenatore nel 1973, brasiliano col carattere di un tedesco, fu il tecnico che forse più di ogni altro nella storia del Napoli ha avuto un’intesa “fideista” con i suoi giocatori, tutti ben allineati e disponibili a realizzare in campo il suo credo calcistico, costituito da ritmo e movimento, al limite dello sfinimento, un calcio totale e spettacolare, come quello olandese di allora, per intenderci. Due stagioni indimenticabili (un terzo e un secondo posto), in cui gli azzurri resero oltre i loro doveri e il loro ingaggio, in omaggio al loro capo carismatico. Aveva promesso subito grandi sacrifici, chiedendo il rispetto di tutti i suoi ordini. Il primo fu imposto a Montecatini, durante  il ritiro precampionato. Affrontò un gruppetto di giocatori che aveva trasgredito all’ordine di non bere acqua minerale ghiacciata e pose l’alternativa:” O fate sempre quello che dico io o me ne vado”. La squadra capì con chi aveva a che fare, scelse di seguirlo e lo fece fino in fondo in qualsiasi campo, ottenendo risultati e gloria. Anche se dopo due stagioni “tiratissime” qualcuno scoppiò per la fatica.

CON CLERICI TENTATO ILLECITO A VERONA (1973-74) Alla vigilia di Verona-Napoli, 21 aprile 1974,  a cinque giornate dalla fine, fallì un tentativo di corruzione ai danni del Napoli. Il portiere dell’albergo dove alloggiava la squadra azzurra chiamò l'attaccante brasiliano del Napoli, Clerici, annunciandogli che era desiderato al telefono. Dall’altro capo c’era il presidente del Verona, Garonzi, il quale riferì a Clerici, ex veronese,  che aveva interessato Gianni Agnelli affinché consentisse all’attaccante del Napoli l’apertura di una grossa concessionaria Fiat in Brasile. “Se smetti col calcio, posso aiutarti ad aprire una bella concessionaria di auto in Brasile, ti farò sapere. E comunque domani, mi raccomando, fai il bravo”. Forse furono queste ultime tre parole che ebbero un peso decisivo nella vicenda. Il giornalista Romolo Acampora, presente alla telefonata, che per primo  aveva pubblicato la notizia su "Il Mattino" e Mino Mulinaccci sulla "Gazzetta dello Sport" continuarono a seguire la vicenda che aveva ovviamente provocato la denuncia all'Ufficio Inchieste da parte del Foggia, in zona retrocessione. Quando Clerici  fu interrogato dagli inquirenti ammise la telefonata, affermando, però, di non aveva dato peso al contenuto e di aver giocato senza condizionamenti. Garonzi, invece, negò di aver telefonato e, quando, a seguito dei riscontri e delle testimonianze,  fu costretto ad ammetterlo, il primo diniego categorico gli costò la colpevolezza perl tentativo di illecito. Il Verona aveva vinto egualmente la partita per 1-0, ma fu retrocesso all’ultimo posto per tentato illecito e finì in  B. A Garonzi vennero inflitti tre anni di squalifica. Nella foto,   Garonzi.

ALTAFINI CORE ‘NGRATO (E SFUMO’ LO SCUDETTO) (1974-75) - Un amarissimo ricordo: la partita perduta in extremis dal Napoli a Torino contro la Juve per un gol di Altafini, da poco entrato dalla panchina. Il Napoli quell’anno sentiva odore di scudetto e in effetti lo sfiorò perché, a seguito di questa sconfitta, finì secondo a due punti dalla Juve campione d’Italia. Se fosse andata diversamente sarebbe stato il primo scudetto azzurro. Il 6 aprile 1975 il Napoli di Vinicio salì a Torino con grandi speranze. Nel primo tempo segnò Causio, ma nella ripresa gli azzurri dopo un quarto d’ora avevano già raggiunto il pari con Juliano. Poi cominciarono i pericoli per Zoff che parò in maniera prodigiosa i tiri degli ex compagni squadra. Ma all’85’  il tecnico bianconero, Parola (un altro ex  azzurro) chiese aiuto ad Altafini che sedeva in panchina. Josè non toccò palla. A tempo scaduto, però, raccolse un batti e ribatti in area azzurra ed infilò nella mischia il povero Carmignani. Un 2-1 che distrusse i sogni di gloria del Napoli e valse ad Altafini l’appellativo di “core ‘ngrato”. Per dimostrare la forza di quel Napoli di Bruscolotti, Juliano, Clerici, Esposito, basta ricordare che dopo quella indimenticata sconfitta gli azzurri piegarono la Ternana per 7-1, l’Inter per 3-2, pareggiarono a Torino 1-1 con i granata, vinsero col Bologna 1-0 e conclusero il campionato con un 2-0 a Varese. Un finale trionfale che non servì a porre rimedio a quella infausta  sconfitta di Torino targata   Altafini.

ESPLODE “OJ VITA, OJ VITA MIA” (1975-76)   E’ legato a questo campionato il trionfo di “Oj vita, oj vita mia…” come grido di battaglia dei tifosi azzurri. Accadde nel  derby Lazio-Napoli del 7 dicembre 1975 (0-1). Era il Napoli  di Vinicio che la stagione precedente aveva sfiorato lo scudetto e che lottava ancora per il primato. Al gol decisivo di Boccolini che portava il Napoli in vetta (mentre la Juve stava perdendo nel derby con il Torino),  vi fu quasi una “magia”, una ispirazione spontanea dei 30 mila tifosi azzurri che affollavano l’Olimpico. Esaltati dal gol di Boccolini quasi tutti i tifosi cominciarono a cantare – quasi fosse stato concordato da una miracolosa regia occulta – “Oj vita, oj vita mia…” che da quel giorno diventò praticamente l’inno dei tifosi in tutte le occasioni  felici e lo è tuttora. Anche perché quell’inno bellissimo (che è la parte più conosciuta della famosa canzone  napoletana“ ‘O surdato nnammurato”) ebbe il suo suggello con un titolo a tutta pagina sul settimanale “Lo Sport del Mezzogiorno”, che enfatizzò l’avvenimento romano coinvolgendo tutta la tifoseria azzurra. (Andate a leggere anche la cartella "Amarcord"). Nella foto, la famosa prima pagina de "Lo Sport del Mezzogiorno" del 1975.

A JULIANO DOPO LA BOTTIGLIETTA UNA MAGNUM CON CHAMPAGNE (1975-76)  Grande senso di sportività del Napoli e di Juliano sul campo di Perugia. Il Napoli pareggia 2-2 e Juliano durante la gara viene colpito da una bottiglietta lanciata in campo da un tifoso perugino. Juliano evita speculazioni allontanando lui stesso l'oggetto in campo che non era sfuggito all'arbitro Menicucci. Il Perugia viene solo multato e per ricompensa offre al Napoli una maxibottiglia da cinque litri di champagne per brindare alla successiva partita esterna degli azzurri a Como (1-0 per il Napoli).

LA SCUSA DEL FURBO DI MARZIO (1977-78) - Gianni Di Marzio il giorno della prima volta sulla panchina del Napoli. Successe a Bressanone, sede del ritiro estivo nell’attesa partita inaugurale. Correvano e aggredivano i ragazzotti del Brixen, elettricisti e muratori, postini e albergatori. Brixen è il nome di Bressanone in tedesco. Durò poco, attimi appena, la foga dei dilettanti locali. I giornalisti inviati al seguito al seguito del Napoli osservavano la partita a pochi centimetri dalla panchina occupata dallo sveglio Di Marzio. Qualcosa bisognava inventarsi per tentare di coinvolgere i giornalisti e spiegare la modesta prestazione . “Giorgio, che brutto scherzetto mi hai fatto”. Giorgio era Vitali detto Sereno, fresco diesse del Napoli assunto al posto di Riccardo Sogliano, terrorizzato e rinunciatario dopo la volata in auto nella notte da Roma a Milano. Al volante c'era un  Ferlaino scatenato, titolare anche del brevetto di pilota di aerei dopo aver partecipato  a corse automobilistiche (la famosa Targa Florio in Sicilia e altre gare). “Questi di Brixen sono stranieri veri” esclamò Di Marzio, a discolpa degli azzurri, per convincere la stampa. Niente male, come battuta. Vitali restò stupito dalla faccia tosta, divertiti  i giornalisti.  Nella foto Di Marzio con il  dottor Emilio Acampora, lo storico medico sociale del Napoli.

VIA JULIANO, COL PLACET DI DI MARZIO (1978-79) - Come si spezzò il filo tra il Napoli e Juliano, capitano storico di tante battaglie, rappresentante partenopeo nella Nazionale? Sembrava inamovibile lo “scugnizzo”, anche se per il suo carattere ed il suo ruolo dettava legge, oltre che in campo,  pure nei rapporti con la Società. Era sempre l’ultimo a firmare i contratti di reingaggio e quasi sempre fece valere le sue ragioni (e le sue pretese). Fu ancora una questione di “vil moneta” a determinare  l’addio di Totonno. Durante l’estate che introduceva al campionato  1978-79, a seguito dei frequenti “scontri”  con Ferlaino,  fu posto a Juliano (col beneplacito di Di Marzio) l’aut-aut: o accettava un reingaggio di 50 milioni, oppure gli veniva offerto un incarico dirigenziale. Totonno che pensava di meritare di più (in soldi: 120 milioni) e di poter dare di più (sul campo), chiese al Napoli la lista gratuita e la ottenne. Poi per dimostrare di essere ancora valido si accasò con il Bologna, rivelandosi ancora utile. In verità, l'allenatore azzurro  Di Marzio non fece niente per trattenerlo al Napoli. Disse solo in proposito: “Alla sua età il crollo può avvenire da un momento all’altro”. Antonio Juliano ritornerà poi nel Napoli, con alterne fortune (e polemiche) da dirigente, protagonista soprattutto nelle  trattative per  gli acquisti di Krol e Maradona.

LE "PRODEZZE" AMATORIE DI KROL PRIMA DI GIOCARE (1980-81) – Nella stagione di Marchesi e di Juliano, nel Napoli del terzo posto, un ruolo importante fu recitato da un nobile decaduto, Rudy Krol, che Juliano con un gran colpo era andato a pescare al Vancouver, in Canada, dove era finito dopo le imprese con la nazionale olandese. Anche Krol, come poi Maradona, fu acquistato e tesserato in extremis, quando gli uffici della Lega erano già chiusi. Il telex di autorizzazione dal Canada restò bloccato da uno sciopero. In duemila andarono all’aeroporto ad accogliere Krol. Aveva trent’anni, ma era ancora valido. Di fronte alle perplessità di qualcuno, rassicurò tutti – a buon ragione – il dottor Emilio Acampora, apprezzato medico del Napoli di lungo corso. Krol si allenava seriamente e diventò il leader che mancava al Napoli, trasformato dall’allenatore Marchesi in battitore libero, terzo e quarto posto nelle prime due stagioni. Nelle strade apparvero diversi striscioni inneggianti all’olandese. Intorno al “bel tulipano” fiorirono molte voci: una di queste sosteneva che Krol spesso estendeva le sue prodezze anche in campo amatorio, persino prima delle partite. E soprattutto a Napoli, ciò che non si fa non si sa. Fu messo K.O. dopo quattro stagioni da un serio colpo al menisco. Nella foto, a destra,  il medico sociale del Napoli, Emilio Acampora,  vera  "istituzione" .

L’IMMANCABILE BANANA DI RUDY, LO SCIUPAFEMMENE (1980-81) - Rudy Krol irresistibile sciupafemmene, non solo sublime calciatore totale? L’olandese dongiovanni inarrivabile? A Napoli eventualmente di giorno, mai però di notte. Banditi  i night, tabarin, discoteche e quant’altro: alle 20 il bel Rudy era già a casa, in pantofole, sprofondato nel divano davanti alla tivù, in compagnia della splendida moglie Yvonne. Casalingo dalle otto di sera, ma grande camminatore nelle mattinate napoletane. Il corpo scultoreo sempre vestito soltanto con una polo a maniche corte, anche d’inverno, e via, avanti e indietro lungo via dei Mille. Sotto gli occhi incantati di signore e giovincelle: si favoleggiò allora di conquiste innumerevoli. Laddove non si favoleggiò, invece, fu sulle abitudini professionali del grande olandese. La colazione-pranzo al “Miranapoli”, a via Petrarca, cornetto, cappuccino, una banana immancabile, per aumentare le energie, e subito al San Paolo, per il rito prima dell’allenamento. Arrivava per tempo, prima degli altri, Krol, si prendeva cura personalmente delle scarpe da gioco (a differenza degli altri), e aspettava il giornalista che aveva chiesto l’intervista su appuntamento. S’affacciava sulla porta dello spogliatoio all’ora convenuta e se il giornalista non c’era o era in ritardo,  tutto veniva rinviato  ad una successiva  occasione. La colpa era dell’altro, non sua. Lui era preciso in ogni circostanza, com'era sempre disciplinato e diligente  sul terreno di gioco.

L’AUTOGOL MALEDETTO DI FERRARIO DOPO 1' CONTRO IL PERUGIA (1980-81) - Fu uno dei campionati  in cui il Napoli sentì il profumo dello scudetto e lo allontanò nel finale di stagione. La squadra che aveva eletto a portabandiera Krol, nuovo idolo dei tifosi, e che si avvaleva di Antonio Juliano come Direttore Generale, alla fine del girone d’andata era a due punti dalla capolista Roma e alla 25° giornata era addirittura al primo posto, insieme con la Roma e la Juve. C’era la possibilità di prendere il volo verso lo scudetto, grazie a due partite consecutive al San Paolo, a cinque giornate dalla fine della stagione. Ma accadde l’imprevisto: il Perugia, già retrocesso, andò in vantaggio, a Fuorigrrotta,  dopo solo un minuto, a seguito di una disgraziata e bislacca autorete di Ferrario e al Napoli non bastarono i restanti 89’ per raddrizzare la sciagurata partita. Su Ferrario fiorirono anche facili illazioni, per fortuna mai dimostrate, legate al calcio  scommesse. Né il Napoli successivamente fece di meglio contro la Fiorentina: appena un pari. Gli azzurri dovettero accontentarsi così del terzo posto, dietro Juve e Roma. Ma da quell’infausto finale, come abbiamo detto,  cominciarono a circolare voci e supposizioni sul calcio scommesse, su giocate effettuate nel Lazio, con testimoni poi sfuggiti alla  denuncia, sospetti che accompagneranno il Napoli fino allo scudetto quasi vinto e poi mancato nell’era Maradona. Si parlò anche di un colossale premio-partita promesso al Perugia (e, guarda caso,  uno dei  suoi giocatori  “sottoscrittori” del patto finì poi col trovar posto in una grande squadra). Nella foto, il difensore  Ferrario: finì in una tempesta di polemiche.

GIACOMINI PORTAVA SFIGA (1982-83) - Il cappotto della sfiga. Anche di questo i tifosi accusarono Massimo Giacomini, tecnico preparato in lite con la fortuna durante la sua breve permanenza a Napoli. Giacomini vestiva di nero, paltò compreso. Faceva chic, era elegante. Quasi sempre in cravatta. Ma non portava vittorie, i tifosi dettero all’allenatore del menagramo. Leggenda popolare, Giacomini, che era subentrato a Marchesi, incolpevolmente, passò per una "ciucciuvettola". Sciò, sciò. Era soltanto troppo mesto per il vulcanico, appassionato popolo napoletano. E fu sostituito in corso d’opera dal tandem certamente più dinamico Pesaola-Rambone, i quali riuscirono a tenere in tenuta di galleggiamento la squadra, minacciata dalla Serie B. Nella foto , un'espressione desolata, cupa  di  Giacomini.

PESAOLA COL SANTINO NEL CAPPOTTO ( 1982-83) - Il ritorno di  Pesaola allenatore.   Napoli-Genoa allo stadio San Paolo, i nostri eroi erano sprofondati in piena zona retrocessione, il Napoli rischiava davvero di finire in serie B. Nel guardaroba il famoso cappotto di cammello portafortuna, il Petisso s’affidava, però,  anche  al santino. Lo baciava. Le labbra appiccicate all’immagine in oro della Madonna, mentre Moreno Ferrario eseguiva il calcio di rigore del pareggio. Finì 1-1. E Pesaola col santino finì nella prima pagina dello sport del “Mattino”. Poi raggiunse la sospirata salvezza.

GUERRA A FERLAINO, ANCHE DAL CIELO (1982-83) - Un campionato sofferto per la società, per l’allenatore, per il pubblico, risoltosi alla fine con un’insperata salvezza, ottenuta dal tandem Pesaola-Rambone in panchina. Si cominciò con il fallimento dell’allenatore Giacomini, si continuò con le minacce a Ferlaino da parte dei tifosi (una bomba carta sotto casa, un’altra contro i botteghini dello stadio S. Paolo, un presidente di un "Napoli Club", inoltre, nell'ottobre del 1982, noleggiò persino un aereo da turismo che volteggiò a lungo sulla città e sul San Paolo, durante Napoli-Roma,  con la scritta “Ferlaino via,  Juliano torna!”), mentre l’ex presidente Roberto Fiore tuonava in televisione contro Corrado Ferlaino, invitandolo a cedere il pacchetto azionario del Napoli, imitato persino  dal sindaco Valenzi che chiedeva le dimissioni di tutti i dirigenti.  Conseguenza: Ferlaino, stanco ed offeso, si dimise (ma senza vendere ovviamente le azioni) affidando la guida della società a Marino Brancaccio. Per fortuna, dopo un periodo nero, la squadra infilò un buon finale di campionato (6 vittorie, 7 pareggi, 2 sconfitte) che portò il Napoli alla salvezza. Tre calci di rigore a favore decisivi ( realizzati tutti da Ferrario) dettero lo spunto alle male-lingue per ipotizzare un aiuto esterno, ottenuto da quel furbastro di Ferlaino dietro le quinte. Nella foto, l'aereo da turismo volteggia sul San Paolo con lo striscione contro il presidente Corrado Ferlaino, durante il derby perso dal Napoli per 1-3 con la Roma nell'ottobre del 1982.

LA VANA BATTAGLIA PER LO STADIO SALLUSTRO (1983) - Con la morte di Attila Sallustro, il 23 maggio 1983 a 75 anni,  si ricominciò a parlare e poi a proporre l’opportunità di intestare lo stadio di Fuorigrotta al grande e primo idolo napoletano. Il San Paolo da intitolare a Sallustro, come San Siro era stato successivamente  intestato a Meazza, due campioni della stessa era. In materia di…santità c’era, quindi,  un precedente illustre. Fu un'inutile battaglia. Era stata già persa anche al momento dell’inaugurazione  dello stadio di Fuorigrotta nel 1959. Allora prevalse San Paolo, su pressioni della Curia, in quanto l’Apostolo era sbarcato in Italia nella zona flegrea. Per tutta risposta nel 1999,  l’Ufficio Toponomastico e il Comune, attraverso la Giunta, decisero , con numero di protocollo 514, di intitolare una strada a Sallustro in una zona popolare alla  periferia di Ponticelli, adiacente al Parco Azzurro e ad una distesa per footing. Sallustro prevalse dopo aver rivaleggiato con Ondina Valla, olimpionica negli 80 ad ostacoli a Berlino nel 1936. Nemmeno una, pur sobria, cerimonia, né una comunicazione alla Stampa, le tabelle venero sistemate in forma molto anonima, peraltro senza il necessario contatto con i familiari del campione (come sostiene il figlio di Sallustro, Alberto che, avendo appreso dal nostro sito la notizia della strada a Ponticelli, ora polemizza con il Comune di Napoli). Nella foto, la tabella comunale per Via Attila Sallustro,  in un rione popolare di Ponticelli.

“PURTATE 'O 'CCAFE' A 'STI QUATTO PEZZIENT” (1983-84) Senza l’assenso di Ferlaino, il presidente pro-tempore Marino Brancaccio richiamò Juliano come dirigente. Personaggio molto orgoglioso, ma anche scomodo sia da giocatore che dietro la scrivania. Ai suoi tempi d’oro, quando giocava in Nazionale, rifiutò un ingaggio favoloso del Milan, sottolineando “Non vado a fare il servitore a quello li”, cioè Gianni Rivera che aveva sempre bisogno di un compagno di squadra vicino che corresse anche per lui. Juliano non andò sempre d’accordo con i giornalisti. C’è chi sostiene di averlo sentito dire negli spogliatoi ad un magazziniere “purtate ‘o ccafè a ‘sti quatto pezzient”, pretese di trattare di acquisti solo con i presidenti, inimicandosi gli addetti al mercato, e non era amato dal  presidente della Federcalcio Sordillo. Per fortuna, Juliano ebbe due colpi di genio con le trattative per Krol e Maradona. Nella foto, Marino Brancaccio col  dirigente Antonio Juliano, nella sede del Napoli.

IL RAGGIRO DI FERLAINO PER TESSERARE MARADONA (1984-85) - Dopo due consecutive e sudate salvezze, eccoci all’anno di Maradona. Diego, il miglior calciatore del mondo, era in rotta col Barcellona. Il "pibe" aveva già espresso parere favorevole per un trasferimento al Napoli. Juliano approfittò della situazione ed intavolò una trattativa rocambolesca con furbizia e con una serie di circostanze favorevoli. Il Barcellona fu preso in contropiede, con un telex-pirata di accettazione dell’offerta di Ferlaino, spedito a Napoli da un “traditore” dalla sede spagnola. Telex ovviamente depositato dal Napoli. Occorrevano ora i soldi, 13 miliardi. Furono trovati con l’intervento della politica (Enzo Scotti) e delle banche. In garanzia fu dato il Centro di Soccavo. Ferlaino in persona completò l’opera. Mancava la firma di Maradona e incombeva il 30 giugno, la scadenza per il deposito dei contratti. Il presidente passò per la Federazione consegnò al portiere una busta vuota, volò con un aereo privato a Barcellona, ottenne la firma di Maradona sotto il contratto, ritornò velocemente a Milano e quasi all'alba, alle quattro, “convinse” il guardiano notturno a sostituire la busta fasulla con quella contenente la firma di Diego. Così il 7 luglio il fuoriclasse fu presentato al San Paolo in un memorabile e singolare pomeriggio, con lo stadio pieno di settantamila spettatori, ognuno dei quali aveva pagato mille lire solo per vederlo. Il primo campionato di Diego, però, non fu tra i più esaltanti. Il Napoli si classificò ottavo, nonostante i 14 gol di Maradona.Nella foto, la presentazione di Maradona ai tifosi azzurri

SCUDETTI VINTI E PERSI TRA MISTERI (1986-87)  Dopo due anni di transizione del “fenomeno”, il Napoli riveduto e corretto, anche grazie ad Allodi (che aveva sostituito Juliano) mise insieme la squadra dei sogni: Bianchi in panchina, Garella, Renica, Pecci, Giordano, l’irruzione di Ferrara, al fianco di Bagni. Addirittura la costruzione del grande Napoli cominciò con riunioni segrete a Milano nella primavera dell'85 tra Allodi, Ferlaino e Bianchi che allenava il Como. Fu lì che, ogni lunedì, in un albergo, furono gettate le basi in gran segreto del nuovo Napoli. E dopo l’ottavo posto di Marchesi  ed il terzo posto di Bianchi, ecco la stagione dello scudetto, con Maradona ancora esaltato dal trionfo mondiale. A completare l’organico, arrivarono De Napoli, Carnevale e soprattutto Ciccio Romano, strappato alla Triestina in B. E alla fine fu un tripudio per lo scudetto (di cui parliamo a parte), davanti alla Juve e all’Inter, con una festa da brivido in tutte le strade di Napoli. In aggiunta, arrivò il successo in Coppa Italia. La replica nel campionato successivo non ci fu. Moggi aveva sostituito Allodi, colpito da un ictus, Careca aveva potenziato l’attacco, il Napoli partì bene, poi fu vittima di un cedimento fisico, subì la rimonta del Milan di Sacchi ( che recuperò otto punti sugli azzurri) ed una serie di risultati un po’ “strani” dei rossoneri. Sugli azzurri piovvero, inoltre,  accuse di scarso rendimento, polemiche per la rottura con l’allenatore (attraverso un comunicato anti-Bianchi firmato da tutti tranne che da Maradona che era al mare), sospetti su un giro di scommesse che aveva coinvolto anche alcuni azzurri. Bagni, Garella, De Napoli e Ferrario furono ritenuti i maggiori responsabili della rivolta contro l’allenatore. Del resto, non c’era mai stata molta simpatia tra gli azzurri ed il mister. Bianchi in aggiunta al suo carattere severo, distaccato, si rifiutava persino di mangiare alla stessa tavola dei giocatori. Il primo segnale importante era arrivato, comunque,  alla fine del campionato del primo scudetto, ad Ascoli, ultima giornata. Nel pullman azzurro che riportava la squadra a Napoli – a scudetto conquistato - si era levato un coro indirizzato a Bianchi  “Te ne vaje o no, te ne vaje sì o no?. Dato l’addio al secondo scudetto, il 1988-89 fu la stagione dell’epurazione, ma fu anche la stagione di un’Inter tritatutto che vinse il campionato con undici punti di vantaggio sul Napoli, secondo. Per fortuna, arrivò la conquista della Coppa Uefa, con l’indimenticabile finale di Stoccarda. Intanto cominciava a maturare il caso Maradona, sempre più schiavo della cocaina, e dell’alcool, troppo debole al fascino femminile, e in rotta con Corrado Ferlaino. Le cose per Diego peggioreranno, ma il Napoli ebbe la forza di  ritornare campione nell’89-90, sotto la guida di Bigon. Nuova festa, a Napoli anche se più contenuta. Nelle foto,  Allodi con  Punzo al San Paolo, ed in basso il volto severo di Bianchi.

 DIEGO AVEVA UNA LICENZA SPECIALE (1986-87) - Solo dopo vent'anni dal successo tricolore del Napoli, Arrigo Sacchi ha rivelato una confessione fattagli da Ciro Ferrara: " Ciro mi ha confidato che i giocatori di quel Napoli fecero un patto di spogliatoio, tutti insieme, sapendo che Maradona non avrebbe mai lavorato come gli altri: furono intelligenti perchè seppero trasformare in una grande forza un'anomalia nelle squadre di calcio, mettendo da parte le gelosie". Questo spiega perchè non ci fu mai insoddisfazione tra gli azzurri per il comportamento "indisciplinato" di Maradona a livello di allenamenti. Sapevano ed erano d'accordo che Diego godeva di una "licenza" particolare. Non doveva essere preso ad esempio per lavorare di meno. E spiega anche perchè i tecnici, soprattutto Bianchi, cercarono di convivere con quel patto di spogliatoio, chiudendo un occhio, trovando accorgimenti e compromessi. Sapevano tutti, presidente, allenatore e giocatori che con Diego "sereno" e motivato c'era tutto da guadagnare (anche economicamente...). E li avrebbe guidati ai successi. Tutto ciò finchè lo spogliatoio fu retto da quel grande nocchiero che fu Bagni, un vero vice-allenatore in campo. Poi dopo il primo scudetto il rapporto tra Bagni ed i suoi compagni si ruppe. Gli fu rimproverato di giocare con una gamba sola per i suoi problemi ad un ginocchio. Non volevano correre anche per lui (che grosso errore!), Bagni se la prese con Bianchi che aveva dato ascolto ad alcuni giocatori e lo aveva escluso dalla formazione. Il Napoli pagò così con un mancato scudetto il feeling che si era rotto negli spogliatoi. Per fortuna - cambiando alcuni uomini - arrivò poi lo scudetto del '90. Ma arrivarono anche la droga l'alcool e le esagerazioni di Diego a rovinare tutto . Nella foto  Ferrara, un grande amico di Maradona.

E FERLAINO RIFIUTO’ DI FARE IL SENATORE (1986-87) - Dopo la conquista del primo scudetto, Corrado Ferlaino fu allettato dalla proposta di lasciare la presidenza della società azzurra e di presentarsi come senatore in un collegio sicuro, nelle file della Democrazia Cristiana. Ciriaco De Mita avrebbe voluto sfruttare la popolarità di Ferlaino ingigantita dal freschissimo trionfo tricolore, per raccogliere voti. Ferlaino (che voleva godersi da presidente quel momento magico) declinò però il prestigioso invito. I bene informati hanno rivelato che il progetto di Ciriaco  De Mita fallì, invece,  in quanto Ferlaino per valutare il suo ingresso in politica aveva chiesto il prezzo per acquistare “Il Mattino” giornale di proprietà della D C... E tutto finì lì. Nella foto, Ciriaco De Mita

MOGGI RE DEI DEPISTAGGI (1987-88) - Moggi il depistatore. “Vi aspetto a cena, mi raccomando, non mancate, ci vediamo alle 21 all’hotel Brun”. I giornalisti che si occupavano di calciomercato si ritrovarono così al centro di un depistaggio in piena regola. L’invito era un pretesto per non destare sospetti: Luciano Moggi sapeva  che lui alla cena non ci sarebbe mai andato. I giornalisti no, fino a quando non s’imbatterono nei dirigenti del Pescara, alla reception dell’albergo Milanofiori. Abbacchiati, il presidente Scibilia e gli altri, erano di ritorno dalla Spagna: missione fallita, quei due brasiliani costavano troppo.  “Siamo atterrati poco fa a Linate. Il comandate dell’aereo privato si è lamentato con noi: “La mia giornata non è finita, ci ha detto, devo prendere Moggi del Napoli e accompagnarlo a Madrid”. Una finta, quindi,  la cena. La classica bugia di un abile operatore di mercato. Moggi a Madrid per fare cosa? “Prende Vanenburg per il Napoli”, e qualcuno abboccò pure. L’informazione  corretta arrivò invece dall’agente argentino Ricardo Fuijca, un vecchio amico. “Moggi è atteso nella sede dell’Atletico Madrid, lo aspetta il presidente Gil. Parleranno di Alemao, ci sarà la firma sul contratto di trasferimento del brasiliano al Napoli”. Moggi, soddisfatto per il depistaggio,  fece poi ritorno all’alba al “Brun”, dove trovò cinque giornalisti stravaccati nella hall,  affamati di sonno, ma sazi di emozioni. Moggi pensò di aver raggiunto lo scopo di tenere nascosto l’acquisto, ma due giornali, a quell’ora già in edicola, portavano la notizia e il titolo “Alemao è del Napoli”. E Moggi dovette così incassare: stavolta non gli era  riuscito…

FERLAINO AVEVA ACQUISTATO VIALLI, MA POI STRAPPO' IL CONTRATTO (1987)      Vent’anni dopo, a settembre del 2007, Ferlaino ha rivelato al giornalista Paolo Barbuto de "Il Mattino": “A giugno del 1987, all'insaputa di tutti,  avevo acquistato Gianluca Vialli dalla Samp. Era il 17 giugno, da un mese avevamo festeggiato il nostro primo scudetto e cercavo altri rinforzi. Avevo raggiunto l’accordo con il presidente Mantovani sul mio yacht, il Double G, al largo di Positano. Affare concluso, nonostante le cento smentite che eravamo costretti a fare quasi tutti i giorni. Non ricordo la cifra, penso tra i sette ed i dodici miliardi, come scrissero i giornali dell’epoca che parlavano della trattativa. Dopo la firma con Mantovani, feci chiamare al telefono Vialli per parlargli, ma lui si mostrò scontento, voleva restare a Genova, mentre io volevo in squadra solo giocatori che desideravano la maglia azzurra. Così strappai il contratto”. Vialli aveva 23 anni e restò per altre cinque stagioni alla Samp, vinse uno scudetto nel 1991, per poi passare alla Juve. Il Napoli, invece, da poco aveva vinto il suo scudetto e Vialli avrebbe dovuto  inserirsi in una squadra che nel 1987-88, dopo il primo tricolore, si schierò invece così: Garella, Ferrara, Francini, Bagni, Ferrario, Renica, Careca, De Napoli, Giordano, Maradona, Romano. Al posto di chi avrebbe giocato Vialli? Nella foto,  Gianluca Vialli con lo scudetto della Samp sul petto.

“SONO MARADONA, ARRESTATEMI PURE!” (1989-90) - La stagione del secondo scudetto. Il "caso Maradona" era sempre più di attualità. Diego non era tornato dall’Argentina. Il campionato del Napoli e di Bigon era cominciato senza il capitano, ma quando Maradona  decise di  rientrare, alla quinta giornata, il Napoli era già in testa alla classifica. Diego continuava a preoccupare Ferlaino. Tutti sapevano delle sue debolezze e tutti lo coprivano. O facevano finta di non sapere. Diego proseguiva a non voler riconoscere il figlio avuto dalla Sinagra, trascorreva molti pomeriggi in albergo, con largo consumo di whisky e di droga, in compagnia di donne – dicono - anche a pagamento, purchè non avessero grilli (pretese) per la testa. Frequentatore di night, una volta fu coinvolto in una rissa in un locale posillipino. Tendendo i polsi ai poliziotti esclamò: “Sono Maradona, arrestatemi pure!”, spuntarono dalla Questura le foto con i fratelli Giuliano di Forcella in una vasca da bagno a forma di conchiglia. Cominciò a sfiorarlo seriamente la camorra. E cominciò a seguirlo nel "vizio" anche  qualche compagno di squadra, che poi ebbe la forza di fermarsi. Diego, invece,  non cambiò strada nemmeno quando (novembre '89) volò in Argentina per sposare Claudia, la madre delle sue due figlie, con una sfarzosa cerimonia. Ferlaino era al corrente della  vita disordinata dell'argentino, ma non voleva essere lui a svelare certi episodi. Non intendeva  ancor più inimicarsi il campione. Confidava certe “scappatelle” e certi “vizi” di Maradona al direttore de Il Mattino, Pasquale Nonno, durante le loro periodiche partite di tressette, con  l’intenzione e la speraanza che le malefatte di Diego venissero denunciate dai giornali. Oggi possiamo dire che se fosse scoppiato qualche scaldaletto prima, forse si sarebbe salvato l’uomo Maradona. Con Bianchi, dietro le apparenze e le dichiarazioni postume di questi anni (molto benevoli), il rapporto era sempre teso. Maradona non poteva ammettere, tra l'altro,  gli allenamenti alle 10 di mattina e spesso li disertava. Bianchi, invece, li pretendeva non perchè fossero tanto utili alla preparazione, ma perchè lui riteneva che l'appuntamento di mattina allo stadio fosse l'unico modo per impedire a Maradona di tornare a casa all'alba "fatto" di coca e alcool. Si andò avanti così tra bugie e compromessi.  Alla fine, comunque, arrivò il secondo scudetto, ma Diego era avviato ormai verso il definitivo declino fisico e morale. Al centro la famosa immagine di Diego con i fratelli Giuliano di Forcella, nella vasca da bagno a forma di conchiglia. A destra, Diego e Claudia sull'altare durante il matrimonio svoltosi nel novembre del 1989.

DIEGO SI SENTI’ TRADITO DA FERLAINO (1990-91) – Fu l’ultima stagione di Maradona. L’argentino aveva superato – e non si sa come – tutti i controlli antidoping, ma dopo Napoli-Bari del 7 marzo del 1991 risultò positivo alla cocaina. Squalifica di quindici mesi. La sua ultima presenza in campionato fu a “Marassi” contro la Sampdoria dove segnò su rigore l'unico gol azzurro di un sonorissimo 4-1. Ormai Maradona non era più il campione  osannato, anche se restava, e lo è ancora, nel cuore dei tifosi Dopo sette anni, partì così per l’Argentina, dove continuerà a far parlare di se per varie implicazioni con la droga e per la sua salute compromessa. Diego ha sempre incolpato Ferlaino (oltre che per la mancata - e promessa - cessione al Marsiglia dopo la conquista della Coppa Uefa) di averlo scaricato, di non averlo “protetto” fino all’ultimo (si riferisce ai controlli antidoping?). Ha parlato di trabocchetto nel fatale controllo dopo la gara col Bari, una vendetta ordita all’interno del club azzurro, che ormai lo riteneva irrecuperabile e voleva chiudere il rapporto “per colpa” dell’argentino, ancora amato dai tifosi. Ecco perché Diego dopo la squalifica ha sparato sempre palle di fuoco contro Ferlaino. Nella foto, Diego ed il figlio entrambi con l'immagine del Che Cuevara tatuato sul braccio destro.

ZOLA, 2 GOL IN CAMBIO DEL SUO CANE “SMARRITO” (1992-93)  Durante Napoli- Fiorentina del 29 novembre del 1992, Zola guidò al successo il Napoli di Ranieri ad un netto successo sulla Fiorentina, 4-1 al San Paolo. Zola realizzò una doppietta, un gol sul finire del primo tempo e l’altro quasi al termine della ripresa, diventando l’uomo-partita. Intervistato negli spogliatoi dai giornalisti, gli fu chiesto a chi dedicava quei due gol: “Non voglio fare una dedica, ma preferisco lanciare un appello a chi è entrato in possesso del mio amatissimo cane, un husky bellissimo, che non ho trovato più, disse Zola. Come premio per i due gol alla Fiorentina desidererei riavere indietro il mio cane. Mi fa molto compagnia, è allegro e giocherellone, ma soprattutto socievole con tutti, cani e persone,” Detto, fatto, la sera stessa del lunedì, dopo aver letto l’intervista sui giornali, il nuovo “possessore” di quel cane, di origine siberiana e dal pelo delicatissimo, restituì all’attaccante azzurro il suo grande amico. A Napoli capita anche questo. Qualche anno prima era stato restituito a Luciano Moggi un motorino del figlio, trafugato, anche allora dopo averne parlato con i giornalisti napoletani.

E LIPPI TAGLIO' LA CORDA (1993-94) - Marcello Lippi, futuro cittì campione del mondo, passato dall’Atalanta al Napoli, auspice Ottavio Bianchi, diventato nel frattempo direttore generale azzurro. Il Napoli con Lippi alla fine si qualificò per la Coppa UEFA, nella stagione degli stipendi non pagati ai giocatori e della messa in mora della società. Un’impresa in un brutto momento. Ma Lippi che fa, resta? Il futuro del tecnico diventò libro aperto quando il digì Carlo Jacomuzzi chiese a Narciso Pezzotti di assumere l’incarico di allenatore in seconda del Napoli. “Mi dispiace, non posso, ho già un impegno. Marcello Lippi mi ha portato con lui alla Juve. Davvero non sapete che sarà lui ad allenare la Juve il prossimo anno?”. Lippi, zitto zitto, aveva già tagliato la corda. E a Napoli nessuno sapeva niente...

BOSKOV PREFERI’ IMBRIANI AD INZAGHI (1995-96)- Voujadin Boskov, nel periodo post-Maradona, fu uno dei personaggi più pittoreschi del Napoli. Famoso per le sue frasi lapalissiane “rigore c’è quando arbitro fischia”, “un punto è meglio che niente”, “vince lo scudetto chi ha fatto più punti”. Aveva vinto il primo e storico scudetto con la Sampdoria di Vialli e Mancini nella stagione 1991-92. Quando Ferlaino andò nella sua villa di Genoa, non riuscirono a trovare un foglio di carta per stendere l’accordo. Boskov rimediò aprendo un pacchetto di sigarette della moglie (giornalista) e fissò pochi termini dell'accordo sulla parte bianca del foglietto argentato che conteneva le sigarette. Il nuovo tecnico non aveva, però,  il patentino di allenatore e assunse fittiziamente anche nel Napoli la qualifica di Direttore Tecnico, coadiuvato da Canè come allenatore. Con il suo entusiasmo coinvolgente, Boskov riuscì a dare la carica giusta alla squadra azzurra che raggiunse un tranquillo settimo posto in classifica.  Fece, dunque,  buone cose nel Napoli, ma si deve anche a lui il mancato acquisto di Inzaghi.  Ferlaino, grazie ai buoni rapporti con Calisto Tanzi,  aveva praticamente chiuso l’ingaggio dell'attaccante che stentava a giocare nel Parma. Inzaghi all’aeroporto, in attesa dell’aereo che doveva portarlo a Napoli per le visite e per la definizione della trattativa, lesse su un quotidiano sportivo un’intervista a Boskov, in cui il tecnico del Napoli alla domanda del giornalista: “Lei lo sa che il Napoli sta acquistando Inzaghi?” aveva risposto “Ma noi abbiamo già Imbriani. E ci basta...Preferisco lui”. Al che Inzaghi commentò sorpreso: “Se devo andare a fare la riserva a Napoli, tanto vale allora che la faccio nel Parma…” E tornò a casa deluso, ma ben deciso e convinto della sua decisione. Ferlaino ritornò alla carica con Tanzi, ma nel frattempo il Parma incontrò  in Coppa delle Coppe l'Halmstad. Inzaghi segnò dopo un minuto  e trascinò il Parma verso un clamoroso 4-0 e alla qualificazione. Quando Ferlaino  si presentò da Tanzi per firmare, incurante delle convinzioni di Boskov, si sentì rispondere. "Mi dispiace, mi scusi, ma  dopo quella partita ora non posso più cederlo. Dovevamo farlo prima..." E Ferlaino fu costretto ad arrendersi. Se Boskov non avesse parlato...Poi Inzaghi si affermò nell' Atalanta, nella Juve e nel Milan per non parlare della Nazionale. Nella foto, Voujadin Boskov al San Paolo, col medico sociale dr. Russo.

UN “PACCO” A FERLAINO (1995-96) - Corrado Ferlaino passa la mano. Vero o finto, semivero il trasferimento del pacchetto azionario della SSC Napoli al gruppo Gallo-Moxedano-Pinzarrone, fu celebrato al "Centro Paradiso" alle cinque del mattino da una passata di cornetti caldi offerti da Patrizia Boldoni, donna d’ingegno, imprenditrice e manager, terza moglie dell’ingegnere. Ill passaggio venne seguito da un’incauta manovra. Risultarono “non esigibili” i titoli bancari prodotti dal socio Pinzarrone, a copertura degli acquisti di Boghossian dall’Olimpique Marsiglia e di Cruz dallo Standard Liegi. Il “pacco” era stato servito al fantasioso presidente, ma fu sventato in tempo. 

CHILI DI MOZZARELLE FECERO INGRASSARE MATUZALEM (1999-2000) - Un altro giocatore bizzarro, difficilmente controllabile nella vita privata, al pari di Maradona, (ma molto meno!) fu il brasiliano Francelino Matuzalem Da Silva, centrocampista proveniente dal Bellinzona. A Napoli ebbe una vita sregolata, animatore di lunghe notti nei localini di Chiaia, finì anche in Questura per aver fatto a pugni con dei giovani in un’uscita serale. Matuzalem mangiava male ed aveva la tendenza ad ingrassare, nonostante gli allenamenti. Molto ghiotto di mozzarella che gli provenivano dalla zona flegrea, ne mangiava in quantità…industriale. L’allenatore Novellino andò a prelevarlo nella sua abitazione e  lo "trascinò" a Soccavo, dicendogli: “Tu da qui non esci più. Alla tua vita privata ci penso io, visto che non sei in grado di controllarti!”. E insieme, Novellino e Matuzalem, riportarono il Napoli in A. Nella foto, Matuzalem Da Silva.

IL PERIODO  PIU’ TORMENTATO ED IL RILANCIO (1991-2007) - Dopo gli anni magnifici e irripetibili dell'era Maradona, il Napoli non si risollevò più. Andò avanti, per anni quasi stordito, con molti cambi di allenatori (Lippi, Guerini, Boskov, Simoni, Montefusco, Mutti, Mazzone, Galeone, Ulivieri, Novellino. Zeman, Mondonico, De Canio, Colomba, Scoglio, Agostinelli: impressionante!), cedendo o perdendo i suoi pezzi migliori una stagione dopo l’altra per realizzare soldi e iscriversi ai campionati (Zola, Crippa, Ferrara, Fonseca, Thern, Cannavaro, Ayala, Schwoch, Bellucci, Jankulovski), un vortice di compravendite, molti bidoni piazzati in azzurro da presunti “amici”, la società sommersa di debiti, con Ferlaino coinvolto anche in Tangentopoli, senza più gli incassi record del San Paolo e in cerca di acquirenti per la società, anche una retrocessione. Quindi, la lieta parentesi del ritorno in A con Novellino e con Schwoch, nuovo idolo della folla, imperdonabilmente lasciato andare (Corbelli che di calcio non ne masticava molto non lo ritenne - sbagliando - indispensabile e ritenne di fare un buon affare prendendo qualche soldino con la sua cessione). La promozione fu l’unico momento di parziale letizia dei tifosi azzurri. Poi, arrivarono l’uscita di scena di Ferlaino, furbescamente com’era entrato (ma con tanti soldi in tasca, in cambio di molti debiti), gli errori e il carcere  di Corbelli, le dabbenaggini e le illusioni di Naldi, il fallimento della Società, la retrocessione in Serie C, tra gente che nel “palazzo” romano non ci amava. Mai vissuto un periodo così infelice e tormentato . Infine l’arrivo salva-tutti di Aurelio De Laurentiis, il Napoli Soccer, la rinascita e la risalita. In tre sole stagioni il salto dalla Serie C alla Serie A. Ancora  "prosit". Nella foto, Aurelio De Laurentiis e   Marino,  il tandem che sta guidando il Napoli verso il  rilancio, dopo il fallimento  di Naldi.