Le quattro panchine storiche del Napoli

Garbutt andò via in lacrime

    L’inglese Willy Garbutt, allenatore del Napoli dal 1929 al 1935, legò il suo nome alla mitica squadra di Ascarelli e Sallustro. Un “mister “ nel vero senso della parola (con lui nacque l'abitudine di chiamare "mister" l'allenatore), perfetto gentleman inglese con l’inseparabile pipa,  autoritario che in sette anni di permanenza a Genova aveva vinto con i rossoblu gli scudetti del 1922-23 e del 1923-24. Garbutt portò il Napoli all’altezza delle “grandi”: nel suo periodo ottenne, tra l’altro un terzo, un quarto e un quinto posto, alternandosi anche in testa alla classifica, in aggiunta all'esordio in Coppa Europa nel 1934. A fare grande quel Napoli contribuirono, con Sallustro, anche Cavanna, Vincenzi, Innocenti, Colombari, Buscaglia, Vojak, Mihalic. Dopo un settimo deludente posto nel 1935, andò via, lasciando molti rimpianti . A determinare il divorzio furono i frequenti contrasti  tra i dirigenti, l’inattesa scialba prestazione della squadra e l’allontanamento del pubblico deluso. Era l’interruzione brusca del suo sogno. Passò al Milan. Svelò poi che pianse, in un angolo dello scompartimento, mentre sul treno lasciava Napoli.
 

Monzeglio il "sergente di ferro"

    Eraldo Monzeglio, il “sergente di ferro” fu il grande protagonista del Napoli del dopoguerra. Già ostico difensore della nazionale azzurra campione del mondo sia nel 1934 che nel 1938, tanta energia, uomo senza vizi e (dicono i maligni) senza avventure femminili. A Napoli a 43 anni, anticipò Herrera con i comandamenti ai giocatori scritti negli spogliatoi. In pratica, fu un paterno "federale" con la sua mentalità, i suoi principi rigorosi. Durante la sua permanenza a Roma, aveva anche allenato a tennis i figli del Duce e lo stesso Mussolini. Polemico e burbero con i giornalisti e anche con Lauro, più volte garbatamente (!?!?!) allontanato dagli spogliatoi. In quei sette anni sulla panchina azzurra, dal 1949 al 1956, Monzeglio raddrizzò la barca, centrando anche la promozione in A nel ’50. I suoi punti di forza: Casari, Amadei, Pesaola, Comaschi, Vinjei, Krieziu. La foto lo mostra sconvolto dopo una clamorosa invasione al Vomero, nella gara perduta contro il Modena per la salvezza, nell'aprile del 1963. I tifosi distrussero le porte del campo, al grido di "Qui non si gioca più!". 62 i feriti, 148 i fermati, 4 giornate di squalifica.
 

Pesaola, due promozioni in A e tre Coppe

    Al pari di Eraldo Monzeglio, anche Bruno Pesaola, già attaccante del Napoli, mise la sua firma al ritorno del Napoli in A. E lo fece per ben due volte, prima nel 1961-62, quando l’argentino fu strappato dalla panchina della Scafatese in Serie D e poi nel 1964-65, quando cominciò il ciclo di Roberto Fiore. Due salvezze in pochi anni, quasi un bilancio irripetibile. Con alterna fortuna, ma con il suo immancabile ottimismo, il “petisso”, cappotto di cammello portafortuna e 100 sigarette al giorno, uomo dalla battuta sempre pronta, fu chiamato più volte al capezzale del Napoli (in totale sette stagioni), conquistando tra l’altro una Coppa Italia, una Coppa delle Alpi ed una Coppa anglo-italiana, e in aggiunta un secondo, un terzo posto ed una mirabolante salvezza in extremis (con Rambone al fianco). Quando lasciò il Napoli, nel 1968, lo fece per andare a vincere lo scudetto con la Fiorentina. Nella foto, il "petisso"  mentre urla dalla panchina.
 

Vinicio, un gioco avveniristico

    Con un grande desiderio di rivincita, dopo il discusso allontanamento da Napoli come calciatore (ancora valido, visto quello che Luis fece a Bologna e soprattutto a Vicenza, dove vinse il titolo di capocannoniere) Vinicio si rese disponibile ad allenare il Napoli nel 1973, al posto di Chiappella e si impose col suo carattere autoritario e soprattutto con un modulo di gioco “avveniristico”. Fu accusato di aver “spremuto” molto i giocatori (e qualcuno lo fu davvero), ma questi lo seguirono volentieri, ottenendo bel gioco e grandi risultati, col forte contributo di Juliano e Clerici. In tre stagioni di seguito , Vinicio ottenne un terzo, un secondo e un quinto posto. Mica male. Ma alla fine il suo carattere da “tedesco” lo tradì: entrò in conflitto prima con Ferlaino, poi con i giocatori stessi. Tra polemiche, minacce, dietro front, andò via in anticipo, lasciando a Delfrati e Rivellino l’onore di vincere nel 1976 la Coppa Italia. E' rimasto legato alla città, dove risiede.
 

Bianchi, scudetto e antipatia

    Ottavio Bianchi, l’allenatore del primo, storico scudetto degli azzurri. Arrivò a Napoli nel 1985-86, dopo la prima stagione di Maradona (ottavo posto), per sostituire Marchesi. Lo vollero Allodi e Marino per la sua indole: serio , gran lavoratore, anche se di scarsa simpatia, già arcigno mediano nel Napoli di Juliano e Altafini. Aveva fatto bene in panchina ad Avellino ed a Como e continuò a far bene anche a Napoli, visto anche gli uomini che gli erano stati messi a disposizione. Taciturno, severo, impose i suoi metodi e, grazie soprattutto al genio di Maradona, portò la squadra allo scudetto, nonostante certe incomprensioni che cominciavano ad affiorare con Diego, i giocatori e i dirigenti. I due secondi posti successivi (di cui uno molto chiacchierato) non furono ritenuti un traguardo positivo e venne sostituito da Bigon che raccolse il frutto maturo del secondo scudetto. Carattere scorbutico: da giocatore dette del "buffone" a Ferlaino per un premio partita sottoscritto con i giocatori e poi non rispettato dal presidente. Fu subito svenduto all'Atalanta...
 

            Il record di don Eraldo: 236 panchine consecutive

     

          Quando Monzeglio sconfisse la “Panzer Division”…
 
                                                     di Carlo Di  Nanni

    Eraldo Monzeglio, personaggio chiave della rinascita del Napoli del dopoguerra, protagonista della promozione in Serie A nel 1949-50, ha lasciato il segno a Napoli, figurando tra gli allenatori indimenticabili della squadra azzurra. Ma chi era Monzeglio, oltre che terzino del grande Bologna negli Anni 30 e poi della Roma, 35 presenze in Nazionale, campione del mondo nel 1934 e nel 1938?  Chi era stato Monzeglio prima dell’avventura napoletana? Come il “sergente di ferro” diventò allenatore di calcio, dopo essere stato allenatore di tennis dei figli di Mussolini, e dello stesso Duce, durante la sua militanza nella Roma? Ecco come tratteggiò la  complessa e discussa figura  di Eraldo Monzeglio il grande e compianto giornalista Carlo Di Nanni negli anni della movimentata presenza di Monzeglio alla guida tecnica del Napoli (alla fine furono ben sette):

     “Qui, a Napoli, dove tutto è  estro e fantasia, Monzeglio è l’araldo della rinascita, quasi un simbolo della riscossa sportiva, per i tanti che hanno avuto fede nelle  sue virtù taumaturgiche. Gli dona molto quel senso illimitato di fiducia popolare; riservato, pulito di gesti, di parole e di vestire sarebbe il mister ideale di un convitto sportivo inglese, se non fosse, invece, di nascita, di istinto, di pensieri, italianissimo. Viene sportivamente parlando, dalla provincia, dalla sua sana terra di Piemonte, dove parlano poco, preferendo agire molto ed in silenzio. Era un boy del Casale.
     Casale Monferrato è la città del gesso, della calce, del cemento; è la Città Bianca, insomma. Ebbene, per quella logica tutta calcistica che conoscete, Casale città bianca, ha nero il campo di gioco, a fondo di carbone, nere le maglie di gioco, nere le tribune. Quando vi sono le nuvole di pioggia, nerissimo è il tempo, e nelle tribune scoperte nereggiano i parapioggia. E’ la città dove l’arbitro, se vuole essere visto e fischiato, come un qualunque arbitro che si rispetti, deve togliersi la giacca, altrimenti la partita è nulla perché i calciatori casalesi sbagliano, facendogli passaggi in profondità…
     Monzeglio è cresciuto, in un vivaio fertilissimo. Giocava attaccante, ma  finì terzino per forza di eventi e per via del fazzoletto bandana con il quale i più famosi terzini dell’epoca cingevano la fronte, alla maniera di Radames. Caligaris difensore-dio ammirato su tutti i campi di gioco d’Europa lo affascinò al punto da volerne imitare lo stile e le gesta riuscendovi in pieno, superandolo spesso perché Monzeglio seppe mettere nel suo gioco di calciatore esteta quel po’ di temperamento che mancava all’acciaio un po’ grezzo di Caligaris, spazzatutto.
    Atleta, artista, avversario sempre leale e corretto, non ha avuto mai nella sua lunga carriera la battuta falsa di un piazzamento sbagliato, di un intervento non dosato, di un calcio che non fosse espressione di raziocinio tecnico; non una volgarità, un fallo inutile, una protesta verbale fuori luogo. Ecco perché Fellsner gli mise al fianco nei lunghi anni vissuti in rosso-blu bolognese, Gasperi. Questi era un Monzeglio capovolto, il violino e la grancassa. Il portiere bolognese Gianni dietro stava a guardare perché i due …suonavano così bene e con tanto affiatamento che era un po’ difficile accostarsi alla porta del “gatto magico” felsineo.
   Il suo passaggio alla Roma fece epoca per  la cifra di trasferimento che sembrò allora un’enormità (troppo bassa). Le vicende sportive si conclusero in Russia dove Monzeglio che aveva fatto collezione di scudetti in Italia e di presenze in Nazionale (35 di A e 6 di B) vinse il suo ultimo torneo, a Stalino precisamente. L’impresa mirabile è riportata dal “Dovunque”, il giornale dei soldati italiani in Russia, durante la seconda guerra mondiale. C’era da battere lo squadrone tedesco delle “Panzer Division” che subissava di gol le squadre ungherese e romene (allora alleate dell’ Asse  Germania-Italia n.d.r.). Monzeglio ordinò una leva di calciatori militari. Se ne presentarono cento, ne scelse venti nel ritiro di Iossinovataia. Nella finalissima c’era più tifo ai bordi del  campo che non per… Italia-Inghilterra. Vicino alle bandierine dei quattro angoli cannoni antiaerei. Lo squadrone dei “panzer” ne prese tre e Monzeglio fu portato in trionfo.
   Cominciò quel giorno la sua carriera di selezionatore apprezzato e serioso. Il resto è storia di ieri. La Sestese, il Napoli, domani chissà dove. La sua dote migliore: la riservatezza. Ha le sue piccole manie, le sue innocenti fobie. E’ umano che sia così. Ma ne guadagna in ascendente sui giocatori a lui sottoposti. Il suo metodo didattico è tutto qui: farsi rispettare, rispettando. Non crediamo, per esperienza, agli allenatori miracolistici. Sono tutti ottimi quando le cose vanno bene; difficile è farsi amare e rispettare se non si hanno doti di probità e di onestà che integrino quelle tecniche. Non ho udito (e sì che ne sento tante e a tutte le ore) sino ad oggi un giudizio su lui che non sia uguale a quello che gli hanno dato a Firenze alla fine del corso per allenatore: “ottimo con 3”. E’ il numero massimo, quello del perfetto. E’ la sigla del padreterno, uno e trino”

                                                                                                       Carlo Di Nanni  
 
  LE CAMPAGNE DEL COMANDANTE
- Nelle foto, in alto, Monzeglio, nello stadio del Vomero, seduto vicino al presidente azzurro,  Achille Lauro, durante il campionato vittorioso del 1950-51, utilizzato dal Comandante per propagandare la sua attività politica. In basso, Lauro con l'allenatore Monzeglio e con  il dirigente Paolo Innocenti, ex terzino azzurro degli Anni 30. Nella foto è riprodotta una locandina  fatta affiggere nel 1952 dal Comandante in città per pubblicizzare "Il Barbiere di Siviglia" e la "Boheme", due serate a prezzi popolarissimi in programma al Teatro Politeama ed offerte da Achille Lauro - ormai in politica con un suo partito - ai tifosi azzurri, su prenotazione.


                       Il petisso e il Napoli, un amore infinito
                                                 di Franco Esposito

                               
 

   
I
nnamorati cotti, felicemente riscaldati da un amore a prima vista. Napoli e Bruno Pesaola di Avellaneda, dieci minuti in bus dalla Casa Rosada, il cuore di Buenos Aires, Plaza de Mayo e le Madri Coraggio. “Al Napoli costai trenta milioni, altri tempi”. La sbandata reciproca dura ancora, non è mai sfumata. Le prime tracce di una passione inesausta sono reperibili nel 1952. Oltre mezzo secolo sottobraccio, gli occhi negli occhi, tipico di una folgorante attrazione e di smisurata passione. Tout cuort, un vero grande amore, fratello di un vezzo tuttora presente, esposto negli anni con rigorosa puntualità. “Trenta milioni, ci pensate?”. Quasi una miseria, per uno che in Argentina, nelle squadre giovanili del mitico River Plate, il club cosiddetto dei millionarios, aveva giocato con Alfredo Di Stefano e Nestor Rossi. “Mai più visto un calciatore più totale di Alfredo, la saeta rubia. Ma io giovanissimo mi sono arrangiato e ho imparato all’ombra anche di un formidabile trio: Pedernera, Labruna, Loustau. Calciatori leggendari, autentici fuoriclasse. Il River era quello, a quei tempi”. Primi anni ’50.
   Petisso Pesaola e il Napoli. Una storia infinita, dolce e leggera, sorrisi e baruffe brevi come le tempeste ad agosto, e Napoli mutevole e mutata attraversata da un capo all’altro. “Faccio fatica a ricordare, l’età è diventata una compagna scomoda, pesante”. Di anni, lui ne ha uno più del Napoli, nato nel 1926. Il riferimento all’età che avanza al galoppo è una clamorosa finta. Il gesto gli veniva in campo naturale, agendo da ala mancina. Fuga lungo l’out, proprio sulla riga, il dribbling e il cross. A beneficio sapete di chi? Hasse Jeppson e Luis Vinicio, dei quali il Petisso fu devoto servitore, all’interno del rettangolo di gioco. Bruno Pesaola calciatore e poi allenatore, episodi originali e curiosi, scudetti sognati e sfiorati, promozioni conquistate, leggende e realtà metropolitane, mille intrecci calcistici e umani a comporre un favoloso romanzo. Napoli e il calciatore suo generoso, inesauribile amante. Una storia straordinaria.
    “Cominciamo da dove?”, in quell’esperanto tuttora personalissimo, la zeta casigliana addolcita nella esse, come se a Napoli fosse arrivato il mese scorso, non oltre mezzo secolo fa. “Mi prese la Roma e al terzo anno me fratturai tutto. Malleolo, tibia, perone. Me sentii dire, col calcio hai chiuso. A sentire medici e professori, ero uno da rottamare. Avevo deciso di tornare in Argentina, un ingaggetto l’avrei comunque trovato. Mi bloccò un telegramma di Silvia Piola, il centravanti dell’Italia campione del mondo nel ’38: “Ci serve uno come te, vieni a Novara, faremo un provino. Vedrai, andrà bene”. Andò benone. Il Petisso giudicato abile e arruolabile. Idoneo e assunto. “Era novembre, i campi infangati, appiccicaticci, pesanti, e io con quella gamba che sembrava una carta geografica. Piena di segni, i ricordi del bisturi del chirurgo. Debuttai contro il Toro, feci gol. Il Novara salvo alla fine, da ultimo che era. La Roma precipitò in B, e fu la mia fortuna. Loro mi avevano dato al Novara in prestito, e in presenza della disgrazia arrivata tra capo e collo non si preoccuparono di riscattarmi. Ancora un anno a Novara, poi Napoli”.
    Napoli e il Napoli, il primo abbraccio è datato estate del ’52. “Arrivammo in tre, acquistati dal comandante Lauro. I tre? Giancarlo Vitali che si divertiva a fare la foca con il pallone praticamente appiccicato sulla fronte, e via di corsa lungo la linea laterale destra, lo svedese Jeppson, e io. A Napoli arrivai in viaggio di nozze”. Bruno Pesaola sposo di Ornella, bella e sensibile, fresca del titolo di miss Novara. La luna di miele in una matrimoniale dell’hotel Britannique, all’angolo di Corso Vittorio Emanuele con via Tasso, dirimpetto adesso c’è la villa bianca di Corrado Ferlaino. Gli sposini in albergo, prima di prendere casa a via Giacinto Gigante, storica dimora dei Pesaola. “L’ambientamento? Tutto facile, immediato, una roba da ridere. Belle amicizie, subito, agevolate dal mio modo di essere. Mi sono sentito napoletano fin dal primo giorno. Un allenatore come Monzeglio, persona squisita, davvero un gran signore, e il comandante Achille Lauro padre padrone. Mai pensato di cambiare squadra e città”.
    Duecentocinquantaquattro partite con il Napoli, il punto alla carriera di calciatore lo mise con la maglia del Genoa. Semplicemente perché non sopportava più Amadei, il fornaretto di Frascati, abile ed elegante attaccante, uno scudetto con la Roma e un gol agli spocchiosi maestri inglesi: a Napoli si era riciclato come mezzala. Vera o inventata la storia delle baruffe con Amadei, non solo ideologiche? “Me faccia un’altra domanda”, la furba richiesta esposta con garbo infinito, oggi come ieri l’altro. Il marchio di fabbrica nelle interviste, il copyright di Pesaola. Secondo Michelangelo Beato, il mitico massaggiatore che curava con caramelle d’orzo le anime più dei muscoli (“stupenda, indimenticabile persona”), Amadei s’industriava nel ruolo ambiguo di delatore del comandante Lauro.
   Vera anche l’altra storia? Pesaola che porta in giro per night Luis Vinicio, suo amico e protetto, reduce da delicati esami clinici effettuati a Padova. ‘O Lione sembrava animato da pessime intenzioni: voleva accoppare Amadei, accusato di aver sparlato di lui. Una faccenda di globuli rossi e bianchi. Da un tabarin all’altro, Pesaola fece ubriacare Vinicio e l’ira funesta del brasiliano decantò nell’allegria provocata dall’alcol. “Alti e bassi, comportamenti ruspanti, anche romantici: quel Napoli era così. L’organizzazione societaria? Un tubo, c’era niente. Nessuno si rendeva conto della enorme potenzialità rappresentata dal pubblico napoletano. Una forza dirompente, senza confronti in Italia e nel mondo. Il primo ad intuire la portata di questo fenomeno è stato Roberto Fiore. Dirigente intelligente, un precursore”.
    Ferlaino arriverà a distanza di anni e con Maradona saranno scudetti. “Quando giocavo, campionato 1953-54, anche il mio Napoli sembrava competitivo per il titolo. Molto bene quell’anno, un mezzo disastro nella stagione successiva”. Una caduta, quello che oggi verrebbe definito un flop, attribuibile al bergamasco Bepi Casari. Un forte portiere, nazionale ai campionati del mondo in Brasile, nefasti per l’Italia. “Casari combinò effettivamente un po’ di pasticci. Ma qualche sfizio ce lo togliemmo lo stesso. Come da tradizione di quel Napoli abituato a vivere alla giornata. Allo stadio del Vomero battemmo in rimonta la Juve, da 0-2 a 3-2. Un gol mio e il secondo di Jeppson a pareggiare le reti di John Hansen e Praest. E la ciliegina finale di Amadei, al ’90. In lacrime il loro capitano: Carletto Parola tirò testate contro il palo, la Juve aveva lasciato lo scudetto a Napoli. Noi cambiammo il portiere a fine stagione. Prendemmo Bugatti, il migliore numero uno nella storia del Napoli. Proprio così: Zoff è diventato il massimo nella Juve”.
    Cinque gol al Milan a San Siro, tutti nel primo tempo. “No, non è vero, è un errore del radiocronista, un infortunio: fu questa, mi dissero poi, la reazione dei napoletani all’ascolto. Invece era tutto vero”. Mai in amore con il gol, Pesaola firmò quel giorno una doppietta. “Un altro gol storico lo feci all’Inter, sempre a San Siro. “La Domenica Sportiva” l’ha inserito per anni nella sua sigla d’apertura”. Polmoni a mantice, raro esempio di generosità, la corsa al servizio della tecnica argentina, Petisso si riciclò interno di centrocampo. Mezzala sinistra, non più ala. Una presenza in nazionale, proprio nella sua Napoli, festa e sconfitta, e applausi e consensi. Bruno Pesaola, figlio di marchigiani emigrati in Argentina, napoletano nel profondo dell’anima, capitano di quel Napoli di norma orginale. Una fabbrica d’invenzioni, auspice Achille Lauro. Qualche esempio? L’ingresso ufficiale della psicologia nel calcio, per guarire i mali periodici della squadra. “Ricordo il nome del professore: Ammendola, una persona preparata, uno studioso. Ancora oggi dubito sia servito a migliorare l situazione. Il calcio è materia facile e insieme complicata”. E lui, il piccolo grande uomo di Avellaneda, è stato un psicologo sottile e raffinato, laureato all’università del marciapiede, non solo il tecnico geniale dalle intuizioni esattamente fulminee.
    In fuga verso il futuro oggi lontano passato, Pesaola diventò a sorpresa l’allenatore di un Napoli male in arnese nel campionato cadetto. “Perduta la A, salviamoci dalla C”, titolò allarmato Il Mattino. Ventinove gennaio 1962, il comandante manda a casa Fioravante Baldi: licenziato in tronco, un esonero in condizioni di classifica disperate. “Mi chiama Achille Lauro: te va de allenare il Napoli? Me andrebbe, ma non posso. Alleno in quarta serie, a Scafati. Nessun contratto, solo un impegno sulla parola con la Scafatese. Eravamo partiti bene, quindici risultati utili con me da subentrante. Il comandante mise a posto tutto, grazie alla disponibilità del presidente della Scafatese, proprietario di un’industria di guanti e tifoso del Napoli”. Il debutto contro il Modena, 1-0. Prima partita di 237 volte di Pesaola sulla panchina del Napoli e, a fine stagione, la promozione in A e la conquista della Coppa Italia. “Un’accoppiata mai riuscita finora ad una squadra di B”.
    Guizzi di fantasia, colpi di genio, intelligenti e furbe trovate, battute fulminanti. Alla Pesaola, come quella confezionata all’istante nel dopopartita allo stadio di Bergamo. “Mi hanno rubato la idea”, in risposta all’arrabbiatura del giornalista bergamasco GB Radici, deluso del risultato non favorevole, furibondo per il comportamento tenuto in campo dal Napoli. Novanta minuti a difesa del fortino, laddove alla vigilia il Petisso gli aveva assicurato che la sua squadra avrebbe attaccato dal primo minuto. Battuta da applausi, come l’altra regalata dall’istrione a distanza di anni, in previsione dell’apertura della campagna acquisti. I giornalisti a Pesaola: il direttore Beppe Bonetto ha un piano. E lui? “Che lo suoni”. Solo esempi, ricordi a braccio, alla rinfusa: il repertorio pesaoliano sarebbe infinito.
    Il Petisso sullo scranno più instabile del mondo. Un po’ come sedere su un vulcano. L’anno dopo la promozione il primo distacco dal grande amore. Eraldo Monzeglio direttore tecnico a supportare Pesaola sprovvisto del patentino. “Incavolato duro con i napoletani, che non l’avevano votato, Lauro vendette un po’ di giocatori e ne non acquistò uno. Il Napoli tornò in B”. E nulla fu più come prima: Roberto Fiore, giovane industriale chimico di Bellavista, diventò proprietario e presidente del club. “ Inventò gli abbonamenti a rate, ne vendette 65.000 in pochi giorni. Portò Sivori e Altarini a Napoli, e furono annate piene di divertimento, enormi soddisfazioni e piazzamenti finali decisamente notevoli”.
    Sivori, che lui chiamava el bajo, il basso, Altafini, Antonio Juliano, Krol, Diaz: Petisso ha allenato i grandi giocatori che hanno scandito la storia moderna del Napoli. “Però Maradona non l’ho avuto, altrimenti lo scudetto a Napoli l’avrei vinto anch’io. Sarebbe stato il massimo. Credetemi, avrei smesso di allenare”.
    A Napoli ha avuto un altro Diego, suo figlio, regista di teatro. Lo scudetto da allenatore l’ha conquistato a Firenze. Presidente l’industriale dell’inchiostro Nello Baglini, e una squadra plasmata e guidata con mano competente e intelligente. Tornò a Napoli e continuò alla Pesaola, tirando l’alba tra sigarette e whisky, caffè corretti e il poker. Compagni di viaggio e fonti d’ispirazione in tante notti di vigilia. Raffinato stratega, anticipava e spiegava come sarebbe come lui avrebbe vinto la partita, il giorno dopo. La mossa tattica come inconfondibile specialità della ditta, a beneficio di un Napoli comunque un po’ così. “Il Napoli hanno cominciato a vincere quando si è affidato a gente competente, veri uomini di calcio. Soprattutto uno: Italo Allodi, il primo grande manager approdato a Napoli”.
    Un amore lungo oltre mezzo secolo, Pesaola calciatore e allenatore. Due promozioni dalla B alla A, scudetti sfiorati, una miracolosa salvezza in tandem con Rambone e tante belle cose. “Una bellissima esperienza, una grande avventura, positiva al cento per cento. Penso di aver compiuto sempre il mio dovere, per rispetto verso i napoletani. Meritano le soddisfazioni più grandi, avrebbero meritato dieci scudetti, non due”. Grazie Napoli, e poi? “Mi è rimasta qui la stagione della semifinale Uefa con l’Anderlecht. L’arbitro inglese Mattwenson scippò la finale al Napoli. Un furto in piena regola. Poi, qualche giocatore tradì: terzi in classifica a sei giornate dalla fine, raccattammo solo un punto nelle ultime sei partite. Chiesi la cessione di alcuni giocatori, mandarono via me”.
    Come allenatore si è ispirato ai tecnici che ha avuto da calciatore. “Renato Cesarini in Argentina, il dottore del calcio Fulvio Bernardini, l’ungherese Shenkey a Novara”. E in più ci ha messo molto di suo, innanzitutto la competenza e l’intelligenza di un napoletano acquisito cittadino del mondo. Qualità che gli danno diritto a sistemare i presidenti del Napoli sul suo personalissimo podio. “Roberto Fiore, Gioacchino Lauro, l’ingegnere. Marino Brancaccio, non Corrado Ferlaino”. Normale, scontato: così diversi, non si sono mai presi.
                                                                       
                                                     
                                                                                                             
Franco Esposito

Nelle foto: in alto, un cross del "petisso" dall'ala sinistra; al centro, Pesaola accanito fumatore, soprattutto in panchina; in basso, Bruno Pesaola  in un ristorante, appena arrivato a Napoli (era in viaggio di nozze)  con la moglie Ornella, da poco eletta miss Novara.