I piu' applauditi in maglia azzurra

Sallustro, il primo mito napoletano

   Prima "stella" del Napoli dalla fondazione, 1926, fino al 1937, primo mito del calcio napoletano nello squadrone di Garbutt. Nato ad Asuncion , ma da genitori italiani, giocò in azzurro (esordio poco più che diciassettenne) 262 partite, segnando 107 gol. Il “veltro” fu chiamato in nazionale – in rivalità con - Meazza - l’1-12 1929 contro il Portogallo, segnando  una rete. Anche come riparazione per le preferenze della nazionale verso il “balilla” Meazza, il Napoli regalò al dilettante Sallustro una fiammante auto Balilla, dal valore di novemila lire. Ma era anche il periodo nel quale Sallustro giocava gratis.... Accomunava scatto felino e potenza di tiro. A volte il carattere ne condizionò il rendimento. Corteggiatissimo dalle donne, considerato un Rodolfo Valentino del calcio, si invaghì e sposò una bellissima soubrette, Lucy D’Albert . Restò a lungo nell’orbita del Napoli, chiamato anche come tecnico “salvatutto” (nel 1960-61 al posto di Amadei) e poi come direttore del  "San Paolo". Morì nel 1983. Invano si è tentato di intestargli lo Stadio San Paolo, come Milano fece con il suo Meazza.

Vojak, per il Fascismo si chiamava  Vogliani

   La mezzala destra Antonio Vojak, un altro indimenticato protagonista del grande Napoli degli Anni Trenta, fu acquistato da Ascarelli, sotto la guida di mister Garbutt, nel campionato 1929-30, prelevato dalla Juventus. Insieme con Vojak vennero ingaggiati, il portiere Cavanna dal Vercelli (zio di Piola), il terzino Vincenzi dal Torino,la mezzala sinistra Mihalic dalla Fiumana e l’ala destra Perani dall’Atalanta, ovvero il nucleo centrale che – insieme con Innocenti, De Martino, Roggia, Buscaglia e Fenili – costituì lo squadrone di mister Garbutt. In quei sei campionati in azzurro Vojak collezionò 189 presenze , segnando 103 gol, appena sei meno del goleador Sallustro. Giocò anche in Nazionale A e B. Il Fascismo, nell’assurda lotta ai cognomi stranieri, gli impose di chiamarsi Vogliani. Dopo l'esperienza napoletana si trasferì al  Genoa e concluse la carriera nella Lucchese. Tornò  a Napoli come allenatore nel 1940 (due stagioni e mezza, sostituito da Innocenti)

Colombari, 'o Banco 'e Napule

   Enrico Colombari, un altro giocatore simbolo del Napoli di Garbutt, il mister che parlava poco e fumava molto. Ma l’allenatore inglese si impose con la sua parola sull’allora presidente Giovanni Maresca di Serracapriola convincendolo e costringendolo ad acquistare per la stagione 1930-31, insieme con l’ala sinistra Tansini (dal Milan) e il terzino Castello (da Genova), Enrico Colombari, già autentico asso del nostro calcio, centro sostegno e laterale ambidestro del Torino. Il neo acquisto azzurro fu  subito soprannominato  “quarto di milione”, oppure " ‘o Banco ‘e Napule” perché da solo era costato la  cifra-record di 250 mila lire. Il trasferimento destò molto scalpore in Italia. Quando Colombari cadeva sul campo, l'immancabile buontempone esclamava: “E’ caduto ‘o Banco ‘e Napule”. Con il suo gioco illuminato e costante  risultò molto utile allo squadrone di Garbutt. Colombari Giocò, in 7 stagioni, 213 partite in azzurro. Nove presenze in Nazionale. Concluse la carriera a Pisa.

Amadei, "grande amore" con Lauro

   Amadei fu il primo fuoriclasse del dopoguerra napoletano. Centravanti della Nazionale e dell'Inter, il “fornaretto” (lavorava come garzone di panettiere nella natia Frascati) ventinovenne fu acquistato, insieme con  Remondini e Casari, altri due giocatori  reduci dai mondiali in Brasile. Tutti voluti e cercati dal presidente Musollino, pochi mesi prima di morire a 43 anni per un infarto davanti all’incendio del Ristorante D’Angelo. Amadei ricco di esperienza, di astuzia, di classe, meritò l’appellativo che gli avevano dato nella Capitale come “ottavo re di Roma”. Dopo le sette presenze in nazionale con la maglia dell’Inter ne  aggiunse altre sette con quella del Napoli. Bella l’intesa con Jeppson e Pesaola. Non altrettanto proficuo il rapporto con lo stesso “petisso” e con Vinicio quando fu allenatore azzurro. D’amore e d’accordo invece con Lauro. Giocò in azzurro dal 1950 al 1956, con 171 presenze e 47 gol. A 22 anni , nel 1943, da giallorosso  - dopo aver vinto uno scudetto - fu squalificato a vita e poi amnistiato, a guerra finita,  per un pugno sferrato all'arbitro Pizziolo.
 

Vinjei, costretto a cambiare nome

   Moltissimi giovani tifosi d’oggi non lo conoscono nemmeno per sentito dire. Eppure Vinjei  può figurare anche in una formazione ideale del Napoli di tutti i tempi. Indomabile e mobilissimo terzino di origine ungherese, ambidestro, poliedrico (tanto da essere impiegato una volta anche come centravanti e sovente fu utilizzato come prima interpretazione del “libero” , un ruolo per il quale sembrava tagliato), Vinjei fu il punto di forza di quel Napoli di Monzeglio, chiamato a fare la guardia – al fianco dell’altro coriaceo terzino Comaschi – a Casari e a Bugatti e a lanciare Jeppson, Amadei, Pesaola. Era dotato anche di un tiro proibitivo. Proveniva dal Sokol Koosice, una squadra cecoslovacca, ma per essere tesserato  l'ungherese Vinjei, dopo lo sconfinamento,  fu costretto in Cecoslovacchia a cambiare nome e diventò Vincenc Prosovsky. Quindi andò alla Pro Patria e arrivò poi al Napoli già ventinovenne, giocando con la squadra partenopea dal 1951-52 al 1954-55. A 33 anni passò alla Spal per riscatto della lista, dopo 114 presenze in azzurro. Un campione che lasciò il segno.
 

Jeppson, molte scintille con Monzeglio

   Dopo Colombari, ecco la seconda “bomba” napoletana sul mercato: Hasse Jeppson centravanti della nazionale svedese ai mondiali del 1950 e successivamente dell’Atalanta. Passò al Napoli – colpo di Lauro – nel 1952, per 105 milioni, un record allora, dei quali 70 all’Atalanta e 35 al giocatore versati in valuta aurea in Svizzera. Per la prima volta un giocatore era venuto a costare più di 100 milioni! Da considerare che nel 1952 il bilancio annuale del Banco di Napoli fu di 500 milioni. Alto un metro e 80, amante di musica, giocatore di tennis, intelligente e freddo, un vero centravanti di sfondamento all’antica, dopo Sallustro. Di grande onestà professionale. Ereditò da Colombari l’appellativo di “Banco ‘e Napule”. Sul campo andò soprattutto d’accordo con Amadei, fuori campo le scintille furono con Monzeglio e con Lauro. Restò quattro stagioni, di cui una non fortunata in coppia con Vinicio, suo successore. 112 presenze in azzurro, 52 gol. Alla fine, lo accusarono di abulia e fu  anche vittima  di infortuni a catena (tra cui un gravissimo incidente stradale in cui morì il suo autista) che ne limitarono il rendimento. Tra polemiche, battibecchi, incomprensioni con la società,  venne ceduto al Torino con lista gratuita.

Vinicio, un idolo dopo solo 40 secondi

   Dopo Sallustro e Jeppson, arrivò a Napoli, nel 1955, il terzo bomber di razza, Louis Vinicio De Menezes, 23 anni, centravanti brasiliano del Botafogo. Il Napoli senza fortuna tentò di farlo passare per oriundo. Si presentò al Vomero, alla prima giornata, con un gol favoloso al Torino dopo appena 40 secondi (nella foto), lasciando presagire un’accoppiata d’oro con Jeppson, il che purtroppo non avvenne e dopo un anno il tandem si sciolse. Attaccante di grande determinazione, un ariete coraggioso, più volte restò in campo e segnò pur essendo menomato da infortuni. Fu chiamato suggestivamente "'o lione". Giocò nel Napoli 5 stagioni (152 presenze e 70 gol). Destino di centravanti. Anche Vinicio, come Jeppson, lasciò Napoli dopo una fase nerissima, persino boicottato all’interno. Con Amadei e il suo clan non poteva restare. Venne fuori una strana storia di globuli rossi, poi smentita. Ritenuto ormai senza forze, sulla soglia della trentina, fu svenduto al Bologna, praticamente regalato. Ma non era finito. Quando poi ( con la cittadinanza italiana) passò al Vicenza, a 34 anni abbondanti, si aggiudicò la classifica dei cannonieri con 25 gol, tre al Napoli!
 

Pesaola, fuga, dribbling e cross per Louis

   Oltre che per i suoi brillanti successi come allenatore del Napoli (due promozioni in A e tre Coppe), Bruno Pesaola è ricordato anche per il suo lungo periodo di militanza in maglia azzurra. 240 partite, 27 gol, in un periodo che va dal 1952 al 1960. Attaccante poliedrico, piccolo e veloce, il petisso (che vuol dire appunto "piccolo") era abile soprattutto quando agiva da ala sinistra: fuga, dribbling e cross per servire Jeppson e poi Vinicio. La Roma lo prese dal River Plate, poi lungo stop per la frattura di tibia, perone e malleolo. Stava per tornare in Argentina quando  Piola lo chiamò a Novara. Andò bene e passò successivamente al Napoli per 30 milioni. E qui offrì il meglio di sè. Arrivò nel Golfo in viaggio di nozze con la bellissima moglie Ornella, miss Novara. Dopo 8 anni di Napoli, trentacinquenne, chiuse la carriera di giocatore a Genova. Come Vinicio, non sopportava più mister Amadei e perse il braccio di ferro. Durante l'esperienza napoletana fece anche il suo debutto in Nazionale a Lisbona, Dopo le successive esperienze da allenatore, è diventato napoletano a tutti gli effetti.

Juliano e il Nord, non sopportava i detrattori

   Totonno Juliano, portabandiera del calcio partenopeo, per ben sedici stagioni con la maglia azzurra, l’unico esempio di giocatore, nato,  cresciuto e impostosi a Napoli, tanto bravo da raggiungere una vera dimensione nazionale. Cominciò in sordina, debuttando a vent’anni in Serie A nel campionato 1962-63 (con retrocessione) contro l’Inter al San Paolo. Una sola presenza. Ma dal campionato successivo, in Serie B, cominciò la scalata verso quel ruolo, regista-cursore, che lo vide brillante e decisivo partner soprattutto di Sivori, Altafini e Canè, in un Napoli tra l’altro secondo, terzo, quinto in classifica. Per alcuni anni,  grande temperamento e dinamismo,  fu anche uno dei cardini della Nazionale, 18 presenze dal debutto nel 1966. Napoletano di estrema sensibilità, notava nei suoi frequentissimi contatti - e ce lo confessò amaramente, facendo nomi e cognomi - una certa "puzza sotto il naso" da parte dell'ambiente calcistico settentrionale nei confronti dei meridionali, come lui. Nei sedici campionati con il Napoli collezionò ben 394 presenze e 38 gol. Passò al Bologna. Da dirigente fu impegnato più volte. Decisivo il suo contributo per l’acquisto di Maradona.
 

Sivori, genio, fantasia e ...vendette

   Nel Napoli di Fiore (e Lauro) neopromosso in A nel 1965, arrivò anche Sivori, genio argentino di cui la Juve doveva disfarsi perché Omar era in rotta con l’allenatore Heriberto Herrera, il quale pretendeva che Sivori si allenasse  e sgobbasse nelle partite. Valutato 300 milioni, stava per essere dirottato a Varese, ma intervenne Lauro  presso Agnelli, commissionando motori Fiat per due sue nuove navi , ottenendo così anche di pagare in due anni i milioni  scesi a novanta. Fu un grosso colpo, salutato al suo arrivo alla stazione di Mergellina da 10mila tifosi i. Esultanza che si trasferì poi sul campo dove Sivori mostrò di essere ancora un campione, al fianco di Josè e Juliano. Inimitabile  il suo repertorio di finte, dribbling e tunnel. Linguacciuto e vendicativo in campo (da ricordare la sfida e gli screzi con Heriberto al S.Paolo: si inginocchiò davanti alla sua panchina per allacciarsi le scarpe e per recitargli "Jijo de puta") nei suoi 12 anni italiani totalizzò ben 33 turni di squalifica. Giocò fino al 1969: 61 presenze, 12 gol. Fu però deludente nell’ultima stagione, non reggeva agli allenamenti, indisciplinato, squalificato per 6 giornate, tornò  in Argentina a 33 anni.
 

Altafini, da "coniglio" a "core 'ngrato"

   Nel Napoli neopromosso del 1965 il nome di Altafini è collegato con quello di Sivori, la coppia-regina che fece grande il Napoli di Fiore in quel periodo. Altafini (già nazionale) fu acquistato per 300 milioni dal Milan in cui ormai era “indesiderato” dopo aver provocato con i suoi atteggiamenti la perdita di uno scudetto quasi vinto e finito poi all’Inter. Il presidente Felice Riva preferì cederlo  al Napoli e non alla Juve. Indimenticabile l’accoglienza dei tifosi sulla pista di Capodichino. Con le magie di Sivori, la classe di Josè, i gol di Canè, la regia di Juliano quel Napoli guidato da Pesaola arrivò terzo, riconquistando il prestigio di un tempo. Era dall'epoca di Garbutt, 32 anni prima, che il Napoli non finiva terzo! L’Inter vinse con appena 5 punti in più. In sette stagioni il brasiliano giocò 179 partite in azzurro e segnò 97 gol. Poi passò alla Juve e segnò quel famoso gol che stroncò le speranze per lo scudetto del Napoli nel 1975 (secondo posto a 2 punti dalla Juve) e gli valse il titolo di "core 'ngrato", dopo quello (ingiusto) di "coniglio", appioppatogli quando era al Milan.

 Zoff fu quasi regalato alla Juventus

   Dino Zoff, razza friulana, di poche parole, freddo con un innato senso della posizione, esemplare nei comportamenti, erede dei grandi portieri che avevano vestito la maglia del Napoli (Cavanna, Casari, Bugatti) fu un pregevole colpo (forse l’unico) di Giacchino Lauro, il figlio del Comandante che nel 1967 venne imposto dal padre alla guida degli azzurri, a danno di Roberto Fiore. Ma Lauro dopo aver dato il giocattolino al già interdetto Gioacchino, glie lo tolse, di fronte ai guai e ai debiti del presidente-meteora. Zoff fu un grande, impareggiabile protagonista durante le sue cinque stagioni partenopee (con un secondo e un terzo posto), disputando ben 143 partite. Al termine del campionato 1971-72, Zoff fu inopinatamente svenduto alla Juve di Allodi. Era il portiere della Nazionale già con 19 presenze! In cambio arrivarono dalla Juve il portiere Carmignani e il centravanti misterioso Ferradini. Il più grosso errore nella storia del Napoli. Comunque, è stato proprio con la Juve che Dino Zoff ha poi raccolto i  più significativi successi della sua splendida carriera. In maglia juventina, fu protagonista, insieme con  Altafini (gol in extremis) della famosa e indimenticata vittoria bianconera che impedì al Napoli di vincere lo scudetto nel 1975. Se non lo avessimo ceduto alla Juve, chissà...

Savoldi, sotterfugio di Ferlaino per il contratto

   Fu il primo grosso colpo di mercato di Ferlaino. Nel 1975, dopo un secondo posto, per vincere lo scudetto strappò il capocannoniere al Bologna, con una rocambolesca trattativa. Ottenuto il contratto – in maniera …scherzosa, si giustificò poi il presidente emiliano – Ferlaino lo depositò nella cassaforte dell’albergo in una busta intestata al D.T. Janich “nel caso mi capitasse qualcosa”. E infatti al “Principe e Savoia” ritornò il presidente del Bologna, Conti,  pentito e  con una pistola. Minacciò Ferlaino, impaurito, disse di essere prigioniero dei tifosi che volevano persino ammazzarlo, strappò una piccola promessa che Ferlaino ovviamente non mantenne. 28 anni, arrivò per la cifra record,  evento storico,  di due miliardi (in cambio di Clerici, la comproprietà di Rampanti e 1400 milioni). Napoli città povera,  in Italia si gridò allo scandalo e agli sprechi. Come se fossero stati soldi della comunità. Ma Savoldi pur impegnandosi, ma male assistito, non fu sempre all’altezza delle aspettative dei tifosi, molto esigenti per quel "pezzo da novanta". Solo 4 stagioni, 118 presenze (tante), 77 gol, di cui 55 in campionato. Tornò al Bologna. Ha avuto poca fortuna in Nazionale: solo quattro partite. E' rimasto legato a Napoli.
 

Ferrara, lo stesso bilancio di Diego

   Uno dei più grandi difensori del Napoli, forse il migliore. Napoletano verace, Ciro Ferrara, nato nel 1967, arrivò al Napoli appena sedicenne (2 milioni in costo), vinse il campionato allievi nel 1983-84 ed esordì in Serie A la stagione successiva, proprio contro la Juve, come Cannavaro. Agile, grintoso, abile colpitore di testa, in dieci stagioni (247 presenze, 12 gol) ha vinto col Napoli due scudetti, una Coppa Italia, una Supercoppa italiana, e una Coppa Uefa. In pratica lo stesso straordinario bilancio di Maradona col quale condivise i trionfi azzurri. Nel 1994 il passaggio alla Juve. Con i soldi della sua cessione, il Napoli raddrizzò il bilancio, come avveniva spesso in quegli anni di depauperamento, con la vendita dei migliori giocatori. Altri dieci anni nella Juve, con nuovi trionfi e presenze in Nazionale, per poi diventare dirigente-tecnico in maglia bianconera e nella Nazionale campione del mondo in Germania  a fianco di Lippi. Una carriera lunghissima, favolosa, irripetibile, un grosso orgoglio per Napoli tutta.

 Maradona, un trucco per acquistarlo

   Il più grande, il più amato, un genio del calcio. Irripetibile, autentico uomo-squadra, nonostante i suoi problemi personali che ne hanno accorciato la carriera, hanno aumentato il rimpianto, ma non incrinato il ricordo e l’affetto dei tifosi. Cresciuto nei quartieri poveri argentini, quando il Napoli lo acquistò dal Barcellona nel 1984 era già “il migliore”, 24 anni, ricco, con la sua “corte”, i primi trionfi e le prime “debolezze”, diciamo così. Per il suo ingaggio fu protagonista -testardo Juliano, ma ci vollero vari colpi di genio di Ferlaino per strapparlo al Barcellona, per reperire i 13 miliardi, per dribblare i regolamenti (una busta vuota in Federazione sostituita nella notte dopo la firma di Diego) e per convincere Diego a restare qualche anno in più a Napoli. Al suo arrivo un S. Paolo zeppo (a pagamento) solo per vederlo palleggiare. Con gli uomini giusti al suo fianco arrivarono 2 scudetti, una Coppa Italia, una Supercoppa e una Coppa Uefa. Poi la malinconica e prematura fine, nel ’91, dopo una squalifica per doping (15 mesi) e dopo sette anni magnifici e terribili in maglia azzurra. 188 presenze e 115 gol, di cui 81 in campionato.
 

Careca, "tira la bomba, tira la bomba!"

   Il secondo scudetto del Napoli, nel 1989-90, una Coppa Uefa e due secondi posti. Ecco il bilancio di Antonio Careca nei suoi primi tre anni in maglia azzurra. Quasi un record. Arrivò nel 1987 dal Sao Paulo per aumentare la potenza offensiva del Napoli che l’anno prima aveva pur vinto lo scudetto. E Antonio Filho De Oliveira, detto Careca, brasiliano di Araracquara, coetaneo di Maradona, già nazionale, centravanti agile e di grande potenza, fu un punto di forza di quel Napoli, protagonista di tanti successi, con un’intesa esaltante con Maradona, una coppia indimenticabile, in campionato e in Coppa Uefa e successivamente con il “gioiellino” Zola. che si impose definitivamente all'attenzione. “Carè, Carè, Carè, tira la bomba, tira la bomba” cantavano i tifosi azzurri dalle curve e il brasiliano segnò 96 gol nella sua carriera azzurra (di cui 73 in campionato). con 166  presenze . Nel 1993 Careca tornò in Brasile, ma ha avuto frequenti contatti con l'ambiente del tifo napoletano, offrendosi anche come segnalatore (inascoltato) di talenti brasiliani.
 

Cannavaro, da raccattapalle a mondiale

   Ha conquistato la sua maturità lontano da Napoli , con lo splendido sigillo mondiale, ma Fabio è stato un giocatore indimenticabile anche per quanto ha fatto a Napoli, nelle tre stagioni che hanno preceduto il suo trasferimento al Parma, per far quadrare i soliti conti in rosso di Ferlaino. Merita, quindi, di figurare in questa collana, lui capitano indomito, napoletano verace, campione del mondo. Figlio d'arte, a 11 anni entrò nelle giovanili del Napoli. Fu acquistato da Rosario Rivellino, insieme con altri due ragazzi, tra cui Caruso e Ametrano, dall'talsider in cambio di un biliardo (4 milioni e mezzo). Raccattapalle al S. Paolo ai tempi di Maradona, prese a modello Ferrara. Marcava Diego in allenamento.  Esordì a 20 anni contro la Juve nel ’92-93 e conquistò la riconferma per altre due stagioni, subito beniamino dei tifosi per il suo carattere leale, da moderno guerriero. Dopo 58 presenze in azzurro, passò al Parma (8 stagioni), poi all’Inter (3), alla Juve (2), infine al Real Madrid da campione del mondo. Pallone d'oro 2006, il prestigioso trofeo di France Football, dopo Gianni Rivera (1969), Paolo Rossi (1982), Roberto Baggio (1993), quindi primo napoletano nella storia. Ha vinto anche il titolo di "calciatore dell'anno" 2006, davanti a Zidane.


 

                 Diego, il Profeta che prometteva gloria
                                         di Massimo Corcione

     M
eno male che l’hanno ritirata quella maglia numero 10. Per almeno due generazioni di calciatori passati per Napoli ha pesato come un macigno. L’ultimo a indossarla fu Roberto Sosa nella giornata della festa per un campionato di C1 che i tifosi napoletani hanno già sistemato nell’angolo più remoto della memoria. Lo chiese più per devozione che per convinzione: lui, argentino, aveva una voglia pazza di possedere una cosa in comune con l’Idolo della sua infanzia. Che poi è stato l’idolo di una nazione, l’Argentina, ma soprattutto l’idolo di una città, Napoli.
     Forse mai l’immedesimazione in un campione è stata tanto completa. Per sette anni Maradona è stato Napoli, anche se non era nato a Mergellina e neppure nelle Vele di Scampia. Più di quanto non fosse già accaduto per Attila Sallustro, più di quanto non fosse riuscito a Luis Vinicio che pure vide le proprie nozze benedette da migliaia di napoletani, in Piazza del Plebiscito.
     Nessuno più di Maradona ha interpretato le contraddizioni della capitale dell’eccesso, fino alla rovinosa caduta dall’altare nella polvere. Il santino di Diego è tornato presto lassù per essere adorato anche da chi non ha mai avuto la fortuna di vederlo giocare dal vivo. Il miracolo laico di Maradona è proprio qui: attraversa le classi, le generazioni, le nazioni, fino a unificare nel suo nome il mondo intero. Da qualche anno nessuno o quasi propone più quell’insopportabile quesito al quale i napoletani subito dettero risposta definitiva: Maradona è meglio ‘e Pelé.
     Vincere due scudetti, là dove mai si era vinto qualcosa di più prezioso di una Coppa Italia o di una Coppa delle Alpi, ha rappresentato l’evento prodigioso che non sospettavano neppure gli ottantamila napoletani radunati in un pomeriggio di luglio dell’84 al San Paolo solo per vedere lui, il Profeta che prometteva gloria per tutti.
     E gloria fu. La certezza fu raggiunta il pomeriggio di Napoli-Juventus, 3 novembre 1985. Quel pallone, toccato da Pecci a Maradona e spedito là dove Tacconi non sarebbe mai arrivato, fu il campanello che annunciò il cambio di direzione della fortuna. Erano giusto dodici anni che la Signora Omicidi (allora la chiamavano così) sbarcava a Napoli e se ne tornava imbattuta, nonostante spesso la vigilia delle partite trascorresse insonne per i giocatori, frastornati dall’ammuina organizzata scientificamente dai tifosi napoletani. La dittatura era finita, l’esercito di liberazione dei sogni napoletani era guidato da Pancho Villa-Maradona.
     Fu davvero rivoluzione. E’ vero che solo qualche mese prima il Verona aveva vinto uno scudetto storico, ma si fermò lì, il Napoli invece avrebbe aperto un ciclo: primo nell’87 con l’aggiunta della Coppa Italia, secondo per suicidio l’anno successivo, Coppa Uefa nell’89, ancora scudetto nell’anno dei mondiali e infine Supercoppa.
     Quattro stagioni vissute intensamente: la Juventus fu messa da parte, gli avversari si chiamavano soprattutto Milan (era agli inizi l’era Sacchi) e Inter (quella del Trap e del record di punti conquistati), poi la Samp degli emergenti Vialli&Mancini. Da questa parte, dalla nostra parte, soprattutto Maradona. Chiedete ai compagni di allora quanto sia stato determinate, tutti vi risponderanno che è stato l’unico a poter vincere da solo, quando il resto della squadra era stanco, affaticato o anche semplicemente più scarso degli avversari.
     In mezzo anche un titolo di campione del mondo, conquistato pure quello in solitudine da Diego, circondato da onesti gregari e con un medico in panchina, Carlos Bilardo, bravo soprattutto a sfruttare il genio che tutti gli altri gli invidiavano. Aveva il mondo ai suoi piedi quel giorno Diego, quando tolse la scena al suo presidente, Carlos Menem. Dal balcone della Casa Rosada dominava l’Argentina, ma già pregustava l’altro trionfo: in fondo la sua nazionale un mondiale lo aveva già vinto, il Napoli da sessant’anni attendeva la consacrazione.
     Dall’album dei ricordi ora emergono solo sorrisi, città impazzita, festa popolare indimenticabile, perfino l’immagine notturna di corso Buenos Aires, il rettifilo di Milano, paralizzato dal traffico dei napoletani all’estero. E il sorriso da bambino di Maradona, il più felice di tutti. Intorno tutti erano comprimari: Ferlaino, Bianchi e Bigon, Allodi, Marino e poi Moggi, gli altri campioni che pure formavano quella squadra, da Careca e Giordano, a Bagni e Ferrara. Altrove sarebbero stati primattori, qui erano esaltati di servire il Signore del calcio, l’eterno ragazzo che riassume in un corpo un po’ tozzo l’essenza del calcio.
      Annerite dall’oblio le altre istantanee: le facce bugiarde di Moggi impegnato in improbabili giustificazioni di assenze sempre più frequenti, le prime esplicite richieste di cambiar aria. Nessuno come Maradona ha saputo farsi del male, la strada verso l’autodistruzione l’ha imboccata più volte. Sembrava finita, l’avventura, quando fu ricoverato in una clinica di Baires. Fuori, in una veglia continua, stazionavano migliaia di ragazzini che non avevano fatto in tempo a tifare per lui. Lo facevano adesso che stava giocando la partita più difficile. E c’erano altri ragazzini anche il giorno del ritorno a Napoli. Stadio San Paolo stracolmo per l’addio al calcio di Ciro Ferrara. Fu la festa per Diego, restituito alla vita. Non ha più la faccia impertinente dello scugnizzo cresciuto per caso nel Barrio Fiorito, ma nessuno riesce a leggergli le rughe sul viso. Sarebbe come scoprire che siamo noi a essere invecchiati. E davanti a Diego ci sentiamo tutti ragazzini.
                                                                                                     
Massimo Corcione

Nelle foto: in alto a destra, Ferlaino presenta Maradona ai tifosi napoletani nel San Paolo stracolmo nel 1984; in alto a sinistra uno striscione dedicato al "pibe de oro" in una strada di Napoli; al centro, Maradona mentre balla nella trasmissione televisiva "Ballando con le stelle" del 2005; in basso, Diego saluta la folla del San Paolo in occasione dell'addio al calcio di Ciro Ferrara nel 2005.
 

  
IL FAX PER L'ACQUISTO DI MARADONA - Ecco il fax inviato il 22 giugno del 1984 dalla Banca della Provincia di Napoli alla Mas Sarda, e quindi al Barcellona, con il quale veniva assicurato il versamento da parte del Calcio Napoli della somma di tre milioni di dollari per il trasferimento di Diego Maradona alla società partenopea. L'acquisto del grande giocatore argentino era virtualmente concluso. Il resto lo farà Corrado Ferlaino in Lega. Per il Napoli stava per cominciare un'era trionfale.


           El pibe: una vita di successi, ma anche di guai


   
Diego Maradona, una vita di eccessi, di alti e bassi, sorprendente nel bene e nel male. Grandi momenti di gioia nei suoi inimitabili trionfi, giorni di tristezza, di dolore nei suoi momenti neri, in bilico costante sull'orlo di un precipizio. Infortuni, problemi con la cocaina, con il fisco, con un figlio non riconosciuto, col divorzio. Dopo aver dato il doveroso tributo al campione indiscusso del calcio, ecco in sintesi i suoi giorni peggiori. Ne ha avuti tanti, ma li ha anche voluti.



1982: IN SPAGNA EPATITE E COCAINA - Già considerato un gran campione anche se non ancora come “ il migliore d’ogni tempo”, Maradona comincia ad accusare i suoi primi guai fisici a Barcellona, al suo trasferimento in Spagna. Si becca, infatti, un’epatite, quella A, alimentare, e resta fuori squadra cento giorni. Intanto, sembra che proprio a Barcellona Maradona comincia a fare la conoscenza della polvere bianca, la cocaina che poi gli stroncherà la carriera anzitempo

1983: UNA CAVIGLIA QUASI IN FRANTUMI - Al “Camp Nou” il difensore basco Andoni Goicoechea, con un’entrata assassina gli spacca la caviglia. Maradona corre davvero il rischio di non giocare più a pallone. Operato, con una caviglia tenuta assieme da viti e fili, dopo una lunga convalescenza e riabilitazione, riesce a tornare in campo e a tornare quello di prima.

1991: DROGATO, LASCIA IL NAPOLI
- E' il 17 marzo. A Napoli, dopo aver vinto due scudetti e una Coppa Uefa, arrivano guai seri. Al controllo antidoping, a conclusione di Napoli - Bari, Maradona risulta positivo alla cocaina. Gli affibbiano 15 mesi di squalifica. Si rompe il rapporto con la società azzurra. Il primo aprile Diego lascia Napoli e torna in Argentina, portandosi dietro irrisolto anche il caso Sinagra: una giovane napoletana, Cristiana Sinagra, figlia di un parrucchiere del Vomero, aveva accusato Diego, davanti alle telecamere del Tg1, di essere padre di Diego Armando Jr. proprio qualche giorno dopo che Claudia Villafanes, fidanzata ufficiale del "Pibe de oro" aveva annunciato di aspettare un bambino da lui. La successiva sentenza del Tribunale si sarebbe pronunciata a favore della donna.

1991: E IN ARGENTINA LO ARRESTANO - Il 26 aprile la polizia argentina arresta Maradona, sorpreso in un appartamento del «barrio de Castillo» assieme con alcuni amici e in possesso di cocaina. Stranamente, si aspettano le telecamere, i giornalisti e i flash dei fotografi per far uscire Maradona da quell’appartamento e a molti in Argentina quell’arresto sembra addirittura preparato per distogliere l’interesse della gente dai problemi della politica e dell’economia argentina. Il tribunale ordina per Maradona un trattamento di disintossicazione.

1994: DOPING ANCHE AI MONDIALI - Ai mondiali di calcio negli Stati Uniti, Diego –completamente recuperato e restituito al grande calcio – risulta positivo al controllo anti-doping dopo Argentina-Nigeria giocata a Boston. Maradona, molto turbato, apprende della sospensione nella sua stanza d’albergo a Dallas, mentre la sua Nazionale è allo stadio per un’altra gara dei mondiali. Maradona si dichiara vittima di un complotto. Il 24 agosto la Fifa lo condanna a 15 mesi di stop.

1997: RICOVERO IN OSPEDALE - Ormai non ci sono più segreti, smentite o sotterfugi. La dipendenza del “pibe” dalla cocaina è ormai evidente e dichiarata. Il 18 aprile, a Santiago del Cile, mentre partecipa ad una trasmissione televisiva condotta da miss Universo, un innalzamento pressorio lo costringe a trascorrere per precauzione una notte in ospedale.

1997: POSITIVO ANCHE NEL BOCA - Irriducibile, con grande forza d’animo, prepara un altro rientro. Tornato in campo col suo Boca Juniors, il 28 agosto, Maradona è fermato dalla Federcalcio argentina perché all’esame antidoping alla fine di Boca - Argentinos Juniors è trovato di nuovo positivo.

2000: A CUBA PER DISINTOSSICARSI
- Il 4 di gennaio, mentre è in vacanza a Punta del Este, in Uruguay, è ricoverato d’urgenza per una crisi ipertensiva ed una forte aritmia. Rischia la vita. Il suo stile di vita viene condannato dai medici. Dimesso, si trasferisce a Cuba, all’ombra del suo grande ammiratore Fidel Castro, per disintossicarsi.

2004: ATTACCO DI CUORE - Il 18 aprile, nuova crisi cardiaca, stavolta aggravata da una infezione polmonare. In gravi condizioni, Diego finisce in ospedale a Buenos Aires. C’è chi parla di attacco di cuore a seguito di overdose di cocaina. Vi resta a lungo, ma vince un’altra volta la sua partita con la morte. Giorni dopo l'attacco di cuore, un'infermiera fu sorpresa a fotografare Maradona con un telefono cellulare e fu prontamente licenziata dall'ospedale. Sempre nel 2004 Diego divorzia da Claudia Villafanes, ma resterà in buoni rapporti con la moglie, grazie anche alle due figlie.

2004: ECCESSI ALIMENTARI E ALCOOL
- Un’altra sua debolezza: la trasgressione alimentare a tavola. Così accertano i medici argentini quando torna ancora una volta in ospedale e sempre a Buenos Aires. Stavolta la degenza dura poco. Ma gli eccessi alimentari, accompagnati dall’uso abbondante di alcool ne segnano la sorte. Aumenta di peso a vista d'occhio. Le foto di Maradona ingrassato sono impressionanti.

2005: GONFIO E PESANTE, POI TORNA IN FORMA - Il suo cuore che funziona ormai al venticinque-trenta per cento non sopporta più quel suo corpo appesantito. E così Maratona – che era apparso in Tv gonfio e deforme, va in Colombia per sottoporsi ad una resezione gastrica. In poco tempo scende da 116 a 76 chili e appare felice, completamente recuperato. Volentieri si offre per trasmissioni televisive, anche come conduttore e scattante ballerino. Assicura spesso la sua presenza in tribuna per assistere a incontri di calcio. Nel dicembre, suo figlio, Diego jr. avuto a Napoli dalla Cristiana Sinagra nel 1986, dichiara di voler denunciare il padre per "mancata assistenza familiare, diffamazione e danni morali" dopo che Diego ha definito “un errore” la sua nascita. "Pago col denaro i miei errori” aveva detto Diego in Argentina: «Accettare non significa riconoscere». Diego Junior – dopo il riconoscimento del Tribunale - era riuscito a parlare con il padre naturale solo nel maggio del 2003, quando con un sotterfugio entrò di nascosto nel campo da golf di Fiuggi dove l'ex campione stava giocando una partita. Alla fine il ragazzo disse che il padre gli aveva promesso che si sarebbero rincontrati. Un impegno mai rispettato. Fu il primo ed ultimo incontro. Tutto questo mentre si susseguivano i guai fiscali. Maradona deve al fisco italiano 31 milioni di Euro. Questo fatto è stato accertato definitivamente dalla Cassazione con una sentenza a febbraio.

2007: EPATITE TOSSICA E ALCOLICA
- Maradona, il 29 marzo, a seguito di un continuo abuso di fumo (quattro sigari Avana al giorno) ed alcool viene ricoverato nel Sanatorio Guemes di Buenos Aires, dopo aver accusato uno scompenso cardiaco, proprio mentre stava per imbarcarsi su un aereo che lo avrebbe trasportato in Svizzera per sottoporsi ad una terapia per dimagrimento. Dopo pochi giorni di cura ed accertamenti, i medici della clinica stabiliscono che si tratta di epatite tossica ed alcolica. Nel giro di una settimana viene accertato un netto miglioramento. Il direttore della clinica, Pezzella, smentisce che Diego, depresso, abbia tentato il suicidio. Subito dopo essere stato dimesso, Maradona è costretto ad un nuovo ricovero per un altro malore  con forti dolori addominali. Si teme una pancreatite, per abuso di alcool. Ma un medico argentino che l'ha curato ha sentenziato:" Il vero problema di Maradona è che si crede un Padreterno E pensando di essere immortale  non si è risparmiato alcool e abbuffate, a parte il fumo". Dopo una lunga cura  , torna a casa, va in Tv, attacca il governo, chi lo ha dato per morto e annuncia di "voler assolutamente tornare a Napoli"

2007: CHIEDE SCUSA E FA PACE COL FIGLIO - Il 21 novembre , dopo tante diatribe, Maradona chiede scusa al figlio Diego, nato dalla Sinagra, e si riconcilia davanti al tribunale di Napoli. Due anni prima durante uno show televisivo, "la noche del 10" a Buenos Aires, riferendosi al figlio napoletano, Maradona aveva detto " sto pagando col denaro un errore del passato". Per questa frase ritenuta diffamante e per aver interrotto il versamento degli alimenti, Maradona fu querelato dal figlio. Davanti al Tribunale di Napoli la riconciliazione. L'ex campione con una nota chiede scusa al figlio al quale vanno anche un risarcimento simbolico (poche migliaia di euro). Maradona, inoltre,  versa gli arretrati ed  anticipa anche tutti gli alimenti dovuti fino ai venticinque anni del figlio. "Più che rancore, odio, ho provato soprattutto rabbia" ha commentato Diego junior. "La rabbia che prova un figlio che in determinati momenti della sua vita non ha un padre accanto a sé. Ora però sono cresciuto, ora ho capito chi è davvero nella mia vita, ogni giorno". Inevitabile, una domanda sulla possibilità di un incontro. Lui, a prendere un aereo per inseguire il padre non ci pensa proprio. "Se vuole incontrarmi - dice senza mezzi termini - deve essere lui a venire qui. Io non andrò da nessuna parte". Dal 2006 Maradona, dopo la separazione dalla moglie Claudia Villafane, madre delle due figlie di Diego, vive con una nuova compagna, la giovane e biondissima Veronica Ojeda. La coppia vive nella zona dell'aeroporto di Ezeiza. Nella foto, Maradona con Veronica durante una festa mascherata in Argentina.

 


Maradona ha vinto di tutto e di più



   
Dal 20 ottobre 1976 ( quando debuttò quindicenne in Prima Divisione nell’Argentinos Junior contro il Talleres de CordobaI) al 25 ottobre 1997 ( data dell'ultima partita ufficiale, con la maglia del Boca Juniors contro il River Plate, battuto per 2-1), Diego Maradona ha vinto di tutto e di più: un Mondiale dei big (nel 1986) e uno dei giovani (nel 1979), tre scudetti (uno con il Boca, nel 1981, due con il Napoli nel 1987 e nel 1990), una Coppa Uefa in azzurro (nel 1989), una Coppa Italia e una Supercoppa italiana sempre col Napoli, una Coppa del Re con il Barcellona, vincendo anche  la classifica dei cannonieri in Italia nell’87-88 con 15 gol. Maradona ha conquistato pure un Pallone d'oro alla carriera, consegnatogli nel '95. Ha vinto, infine,  il prestigioso titolo di “Calciatore del secolo” organizzato dalla  Fifa con un sondaggio nel 2000. Unico cruccio, la Coppa dei Campioni. Quella sudamericana, la Libertadores, Diego non l'ha mai neppure giocata, quella europea l'ha visto fuori al primo turno con il Napoli contro il Real Madrid. Ha disputato quattro campionati del mondo. Due le esperienze da allenatore: nel 1994 viene ingaggiato dal Deportivo Mandiyú di Corrientes, ma due mesi dopo rinuncerá all'incarico. Seconda esperienza da allenatore nel 1995: lo assume il Racing Club di Avellaneda. Quattro mesi dopo dará le dimissioni.
                      

                  Juliano, una storia che sembra una favola
                                                   
  di Toni Iavarone

     G
iocare nel Napoli per lui è stato un gesto naturale. Lo sognava da ragazzino. E come in un sogno Antonio Juliano il 17 febbraio 1963 debutta in serie A, al San Paolo, in una partita sfortunata, che gli azzurri perdono 5-1 con l'invincibile Inter di quegli anni. Le storie dei grandi personaggi spesso iniziano così, con una delusione, prima di mille momenti di gloria. E di attimi indimenticabili Juliano ne vive tanti, spalmati in una lunga carriera da calciatore, terminata a fine anni '70 a 36 anni, costruita tassello dopo tassello, con 502 maglie azzurre e alcune vittorie che per il Napoli di allora valevano come scudetti: Coppa Italia nel 1976 e quei trofei meno importanti, ma a cui siamo ancora tanto affezionati, come Coppa delle Alpi e Coppa Italo-Inglese.
    Lo scugnizzo di San Giovanni a Teduccio indossa la fascia di capitano del Napoli a soli 23 anni. E ' un duro, si allena tanto e affina una tecnica già buona. Sa tirare da fuori area come pochi in Italia, è un uomo d'ordine che in azzurro diventa regista assoluto, indossando la maglia numero 8, quasi a dimostrare al mondo che si può essere bandiere e leader di una grande squadra anche senza il "10" sulle spalle. Un tipo così, che dalle nostre parti chiamarono subito il "Golden boy" del Napoli, incuranti dei suoi colori neri mediterranei, in Nazionale ci arriva naturalmente. E con la maglia dell'Italia Totonno vive e scrive pagine di calcio incancellabili C'è lui, l'orgoglio dei napoletani, ad alzare la Coppa Europa con l'Italia a Roma nel '68. E c'è sempre lui, prima spettatore privilegiato dalla panchina in Italia-Germania 4-3, poi in campo, nel giorno triste della finale con il Brasile. E Impazzisce di gioia quando lo convocano nella nazionale del Resto del Mondo. Lui, lo scugnizzo del Napoli, al fianco di fuoriclasse come Cruyff e Beckenbauer.
   Qualche rammarico trova comunque posto tra le mille gioie di Juliano. La Juve gli porta via lo scudetto del '75: nessun antico tifoso azzurro ha mai dimenticato quel decisivo Juve-Napoli 2-1, mentre ad Agnano andava in scena il “Lotteria”. Juliano era indemoniato: un gol spettacolare da fuori area e un altro, fotocopia, che Dino Zoff gli nega con un volo infinito, prima del tradimento di Altafini, con quel drammatico gol del 2-1, che pugnala a morte il suo Napoli a due passi dal titolo. Non solo azzurro c'è anche una macchia di colore rosso-blu nella sua carriera, quando Juliano gioca l'ultima stagione da calciatore con la maglia del Bologna. E' una ripicca, la reazione di un innamorato tradito: Corrado Ferlaino gli prepara un addio che lui non ha deciso e il "Totonno furioso" se ne va da avversario a Bologna, prima di mettere la parola fine alla sua splendida carriera di calciatore.
  Tormenti, gioie e dolori a più riprese, anche nei suoi anni da dirigente. In giacca e cravatta, lo sguardo serio e imbronciato di chi la sa lunga ma non vuol dire, Juliano vive momenti che passano alla storia, nel bene e nel male. E' Direttore Generale nella stagione 1980-1981 quando a cinque giornate dal termine del campionato la nostra città è già imbandierata di tricolori e d'azzurro, con il Napoli in testa alla classifica, assieme a Juve e Roma. Juliano assiste attonito al dramma azzurro d'aprile, in una delle partite-beffa più assurde della storia del Napoli: il Perugia ultimo e retrocesso passa al San Paolo con un'autorete di Ferrario. E addio sogni di gloria e di scudetto.
   Juliano frequenta da dirigente generale del Napoli anche gli alberghi di lusso di Barcellona, in quell'indimenticabile inizio estate del 1984. Sul contratto di Diego Armando Maradona al Napoli non c'era la firma di Totonno ma quella di Ferlaino. Ma in fondo, è come se ci fosse stata, perchè in quella trattativa lunga e difficile, a volte stucchevole e paradossale, Juliano non mollò mai, tignoso e cocciuto napoletano, in perenne duello dialettico e di furberie con quel vice presidente del Barcellona Gaspart, antipatico e impopolare come pochi. Peccato solo per quell'addio amaro prima delle glorie e degli scudetti azzurri degli anni di Diego. Juliano lavorava con il solito impegno ma c'era già il grande Italo Allodi a programmare il presente e il futuro del Napoli. Brutti scherzi di Ferlaino. Nè il suo ritorno di fiamma da dirigente a fine anni '90 in serie B, passerà mai agli annali. Poco importa: c'è così tanto da ricordare quando si parla del capitano azzurro, che le ombre della sua lunga carriera, lasciano il posto e si perdono tra le luci del suo mito.
                                                                                                            Toni Iavarone

Nelle foto: in alto, Juliano con Vinicio, due idoli del Napoli durante un Napoli-Vicenza al San Paolo; al centro, Attila Sallustro premia Antonio Juliano, capitano del Napoli,  per le sue prestazioni in Nazionale; in basso, Antonio Juliano, opinionista Tv con Toni Iavarone.

 

             Ad Attila solo una "Balilla" in cambio di tanti  gol
                                                                        
 
 di Mimì Pessetti


      L’anno venturo, nel 2008, ricorre il centenario dalla nascita di questo grande personaggio che è stato un po’ campione e un po’ divo. Attila Sallustro nasce ad Asuncion da genitori italiani e benestanti. Ancora giovinetto, viene in Italia. Due fratelli: Oreste che giocherà nel Napoli e Oberdan che finirà vittima del terrorismo in Sud America. Oreste e Oberdan studiano ingegneria. Nei progetti paterni anche ad Attila viene indicata una strada professionale da borghese medio-alto, ma il ragazzo coltiva ben altri istinti. La figura slanciata, il portamento elegante, il gusto per le cose belle della vita, forse anche un’inevitabile tendenza a stare sotto i riflettori. L’occasione gli viene offerta dai primi campi di calcio.
    Nella stagione 1925-26, a soli 17 anni, diventa titolare dell’Internaples, siglando persino una tripletta alla Messinese. Siamo alla svolta epocale del calcio partenopeo. Giorgio Ascarelli, impareggiabile presidente azzurro, trasforma la vecchia Internaples in Associazione Calcio Napoli e ottiene un posto nel primo campionato nazionale a girone unico. Qui comincia l’ascesa del campione che dopo un paio di stagioni diventa titolare inamovibile, cannoniere scelto, idolo dei tifosi.
    Il padre, visti traditi i suoi progetti, benedice la scelta del figlio di tirare calci al pallone. Gli impone, però, di non fare affidamento sui guadagni del calcio. Attila gioca senza chiedere soldi, creando imbarazzo ai dirigenti azzurri, i quali, per sdebitarsi e per dimostrargli una benché minima gratitudine, gli aprono nel 1932 la portiera di una fiammante Fiat 521 e lo fanno accomodare. “E’ tua – gli dicono – va pure a tutto gas!”. Attila pilota l’auto per le vie del centro e parcheggia nel bel mezzo di Piazza del Plebiscito. Accorre un nugolo di fotoreporter e così viene immortalato il delizioso campione col gradito trofeo.
    Sallustro è nel pieno del suo vigore atletico. Si sente ammirato e dunque realizzato. La città lo ama, i tifosi impazziscono per lui e lui li ripaga a suon di gol. Che cosa gli manca? Sembra strano, ma qualcosa gli manca. Intanto aspetta la definitiva consacrazione che solo una chiamata in Nazionale può dargli. Carlo Carcano, selezionatore azzurro, ignora le qualità del “veltro” (così è soprannominato Attila per la sua elegante falcata). Carcano, però, non può durare in eterno. Gli subentra Vittorio Pozzo che comincia ad allestire lo squadrone che vincerà due titoli mondiali (’34 e ’38) ed un’Olimpiade (’36 a Berlino).
   Il nuovo ct alla prima convocazione chiama Sallustro e lo manda in campo contro il Portogallo. Attila non è solo. Al suo fianco c’è un altro calciatore del Napoli, Mihalich. Per l’Italia è un trionfo. I lusitani vengono battuti con un tennistico 6-1 e un gol lo fa il “veltro”. Si gioca a San Siro, davanti ai supporter di Peppino Meazza, l’astro nascente del calcio italiano che in seguito risulterà un ostacolo inesorabile per il nostro campione sulla strada della Nazionale..
   Sallustro-Meazza, un dualismo che divide il Nord ed il Sud. A conti fatti un dualismo impari, certamente non all’altezza di quello tra Bartali e Coppi o, per tornare al calcio, di quello tra Mazzola e Rivera. Qui, a penalizzare Sallustro, intervengono precisi fattori. Meazza è più giovane, gioca nell’Ambrosiana-Inter e questo geopoliticamente lo avvantaggia. Senza tener conto che l’Ambrosiana vince scudetti, mentre il Napoli veleggia nel centro della classifica. Cosa può fare Attila per far cambiare idea a Pozzo? Nulla o quasi. Gli riesce solo di strappare una seconda presenza contro la Svizzera, a Napoli, nello stadio intitolato a Giorgio Ascarelli. E gli resta anche qualche magra rivincita negli scontri diretti in campionato, come quando il Napoli batte l’Ambrosiana (3-1) di Meazza e due gol li mette a segno proprio il centravanti partenopeo. Una consolazione.
   Attila Sallustro è tuttavia un campione autentico. Non si rammarica per questa concorrenza impari. Pensa al suo Napoli, pensa a godersi il successo che i tifosi gli tributano. Però gli manca ancora qualcosa.e in questo qualcosa ben presto s’imbatte. E’ come un pallone che arriva dalle sue parti e lui lo stoppa con naturale eleganza, per filare a rete come solo lui sa fare.
   Elena Johnson è nata a Mosca. Sua madre, Lidia Abramovic, è una ballerina russa che si fa chiamare Ise Bluette, ex vedette delle Folies Bergeres. La giovane Elena segue le orme materne e sceglie un nome d’arte destinato a diventare famoso: Lucy d’Albert. Viene scritturata al Teatro Nuovo, a Napoli. Attila non disdegna le luci del varietà e una sera va al Nuovo con un manipolo di amici. Le evoluzioni del corpo sinuoso di Lucy lo affascinano e a fine spettacolo corre in camerino per conoscerla. Lucy, si dice, ha una storia con Umberto di Savoia, ma il colpo di fulmine per il bellissimo campione è inevitabile. Si sposano e le malelingue sentenziano che con le nozze comincia il lento e inesorabile declino del calciatore. Gli viene preferito Guglielmo Glovi, bomber di Bagnoli. Attila appende le scarpette al chiodo. Rimane nell’orbita azzurra solo per una breve sosta sulla panchina del Napoli, chiamato a sostituire il tandem Cesarini-Amadei. E’ il campionato 1960-61: a due giornate dalla fine il Napoli è già condannato alla serie B.
   Viene nominato direttore del nuovo stadio San Paolo, quello stesso stadio che molti volevano dedicargli, così come è accaduto a Milano per Meazza. Napoli si dimostra invece ingrata ed oggi solo una stradina periferica a Ponticelli, di fronte al Parco Azzurro, reca il nome di Attila Sallustro, nonostante tutto uno dei tre o quattro miti della storia calcistica partenopea.

                                                                                                           
Mimì Pessetti

Nelle foto: il alto, Sallustro immortalato  in Piazza del Plebiscito con la fiammante "Balilla" regalatagli dal Calcio Napoli nel 1932, per compensarlo delle sue prestazioni; al centro, Attila nel 1936  con la moglie Lucy D'Albert ed il figlio Alberto, di pochi mesi, che attualmente vive a Roma.
 

                          Vinicio, il cuore di un leone
                                            di Nino Masiello

    “D
ona” Orozina non amava soltanto l’insegnamento delle materie d’obbligo alle elementari di Belo Horizonte, amava anche il calcio, e quei cinque ragazzini che vedeva al termine delle lezioni contendersi una piccola palla di gomma, nel cortile della scuola, la mandavano in sollucchero. Perché ogni giorno miglioravano i “fondamentali”, imparavano a dribblare e, uno, in particolare, già calciava al volo che era proprio un piacere.
   Quel campioncino in erba, specialista nei tiri in porta, si chiamava Luiz de Menezes, apparteneva a una famiglia borghese di Belo Horizonte, destinato a diventare un professionista, con una sorella già insegnante di educazione fisica fidanzata con un aitante maestro di tennis. Furono proprio la sorella, Luisa, e il cognato, a prepararlo adeguatamente sul piano fisico per aiutarlo a sostenere i primi impegni ufficiali in una squadra di quartiere, gli “Aventureros”, iscritta ai campionati giovanili. Correva l’anno 1947, il futuro campione della prima squadra di Belo Horizonte, città brasiliana di circa mezzo milione di abitanti, stato del Minas Gerais, di anni ne aveva quindici e, per parenti e amici, era già Vinicio.
   Dagli “Aventureros” alla “Metallusina”, al “7 Settembre” di don Antonio Lunardi, suo grande mentore, e di Jair de Assis, suo primo maestro che, in allenamento, lo faceva marcare anche da tre avversari per migliorarne tenuta e tenacia: Quel Jair che lo portò a completarsi come centravanti di sfondamento che si faceva largo prepotentemente, a forza di gol, tra i moltissimi giovani emergenti del calcio di Belo.
   Al punto che, a diciotto anni appena compiuti, fresco di iscrizione alla facoltà di architettura, il suo nome finì nel taccuino del presidente del mitico Botafogo di Rio, Carlito Rocha.
   Affare fatto. Quattromilacinquecento cruzeiros al mese (novantamila lire al cambio di allora, 1951), vitto, alloggio e tasse universitarie pagate. Il giovanotto di provincia sbarca a Rio e mette timidamente piede nella società che aveva dato al calcio mondiale fuoriclasse come Didi, Garrincha, Zagalo, Nilton Santos, Zezè Moreira, una sbornia d’orgoglio per mamma Giuditta, per “Dona” Orozina, la maestra-tifosa, per i nove fratelli de Menezes.
  Tre stagioni nel Botafogo e diventò “il leone” quando un supertifoso inviò pochi versi della domenica a un giornale sportivo di Rio per celebrarlo tale: “Vinicio, il tuo nome è accetto, con la tua fama di campione tu hai, nel petto, il cuore di un leone”. Sicchè, quando la società di Rocha decise di inventarsi una tournè europea per mettere in vetrina i suoi migliori giocatori, Pasqualini, mediatore specializzato in affari con i mercati sudamericani, suggerì ad Achille Lauro anche il nome di quel “leone”.
   Don Achille seppe che il Botafogo, dopo il Real, avrebbe fatto visita agli svizzeri del Grasshoppers e poi sarebbe arrivato a Torino per un’amichevole contro una mista Juve-Toro.
  “Il Napoli acquisterà Vinicio” proclamò ‘o comandante. Gino Palumbo, insuperato maestro di giornalismo e di vita, andò a vedere l’amichevole: “Vinicius ci è piaciuto più del suo celebre compèagno Da Costa. Il biondo calciatore – scrisse sul Mattino – a nostro avviso è un grandissimo centravanti: affiancarlo a Jeppson, regolamento federale permettendo, potrebbe essere una formidabile idea”.
   Dopo Torino il Botafogo arrivò a Roma, che già si preparava ad accogliere Da Costa in giallorosso. Altra bella prova del “Leone”: “Stavo sotto la doccia – racconterà Vinicio- a partita da poco conclusa, quando mi si avvicinò un signore simpatico, sorridente, in compagnia di Rocha. Disse il suo nome nel porgermi la mano, ma non capii molto. Poco dopo, invece, Carlito mi disse che era l’allenatore del Napoli, Monzeglio, il mio futuro tecnico nel Napoli di Jeppson, il centravanti che avevo tanto ammirato durante la Coppa Rimet del 1950”.
   Il trasferimento fu perfezionato a fine agosto del 1955, il 18 settembre l’esordio in campionato, al “Vomero”, contro il Torino: Bugatti, Comaschi, Greco II, Castelli, Tre Re, Granata, Vitali, Posio, Vinicio, Amadei, Pesaola. La partita era appena cominciata che Vinicio salutò Napoli con una fulminea cannonata contro la porta di Rigamonti e Cuscela, Bearzot, Grosso, Moltrasio rimasero inebetiti. Vinicio segnò ancora. Poi il Napoli vacillò e il Toro pareggiò i conti nei venti minuti finali.
   Fermiamo qui le lancette dell’amarcord viniciano. Cinque stagioni in azzurro, per due nel Bologna, quattro nel Vicenza dove diventa capocannoniere nella stagione 1965-66, un campionato nell’Inter, la chiusura ancora a Vicenza. Poi le panchine, anche quella del “Napoli all’olandese”, semplicemente straordinario e tosto. Proprio come il suo maestro, entrato a buon diritto nella leggenda del più bel calcio di tutti i tempi.

                                                                                                                Nino Masiello

Nelle foto: in alto, Vinicio mai domo, a bordo campo al Vomero, dopo un infortunio di gioco. Alle sue spalle il Comandante Achille Lauro. In basso, Vinicio sposo con Flora nel giugno del 1957. Nel giro di quattro giorni convolarono a nozze prima Vinicio e poi Jeppson, suo compagno di squadre e...rivale.

 

Cannavaro, orgoglio napoletano
 di Mimmo Carratelli

      Non c’è alcun dubbio che Fabiuccio Cannavaro, from Naples at Loggetta, è la corona della nostra testa e il piedistallo del nostro orgoglio, campione del mondo del nostro cuore napoletano, guerriero e palla di gomma, trasvolatore d’area, barriera corallina, frangiflutti, torre, pedone e re dei sedici metri, e ha meritato ampiamente il Pallone d’oro e successivamente anche il titolo di "campione dell'anno" 2006 (indetto dalla Fifa) davanti a Zidane ed a Ronaldinho. Meriterebbe di tutto e di più: l’area di rigore di platino, la respinta di rubino e il colpo di testa di argento. Ma la strameritata incoronazione parigina è l’ultima conferma di un calcio che va all’indietro, si raggruppa in difesa, pressa, respinge e distrugge ogni fantasia, però vincendo un campionato del mondo.
     Bene. Quel che conta è il risultato. Ma che il calcio traboccante di euro, issato a spettacolo quotidiano dalle tv, capace di far saltare le sedute del Consiglio comunale a Napoli e bloccare il Parlamento a Roma, diffuso dai satelliti dalla Cina al Canada e celebrato persino dai gossip dei giornali rosa, non abbia che da proporre un terzino al primo posto in Europa e un portiere al secondo posto vorrà pur dire che il pallone è diventato quadrato. E’ la celebrazione del deserto dei tartari all’attacco nell’esaltazione di ogni fortezza, fortino e forte, piazzaforte, linea Maginot, fossato e filo spinato.
    Ci sono stati difensori di grande bellezza atletica e fascino tecnico, l’olandese Krol su tutti, ma anche il kaiser Beckenbauer, l’amato Scirea, l’indimenticabile Armando Picchi e il più recente Franco Baresi, di cui Fabio Cannavaro è degnissimo erede, ma la scelta di un terzino a re del football continentale stride con lo spirito del gioco più bello del mondo la cui bellezza nasce e si è nutrita in tutt’altri ruoli, il favoloso “numero 10” su tutti, le ali volanti, i centravanti di grazia e di sfondamento.
    Il pallone d’oro nasce, nel 1956, col premio a Stanley Matthews, l’ala destra che per le sue finte infinite e il tiro minaccioso fu incoronata baronetto. Ha innalzato sul podio l’immenso Alfredo Di Stefano, la “saeta rubia” con nonni capresi, e Suarez, Sivori, il panterone del Mozambico Eusebio, Bobby Charlton, il disperato Best, gli essenziali Cruijff e Platini, il tulipano Marco Van Basten e Zizou Zidane, e i nostri Rivera, Paolo Rossi e Roby Baggio, fiori di un giardino straordinario. E’ evidente che il giardino è sfiorito. Le tattiche esagerate e il troppo danaro delle vittorie indispensabili hanno disseccato il terreno. Nessuno disegna più ghirigori di delizia sull’erba, nessuno traccia più parabole magiche nel cielo degli stadi, nessuno incanta più. Il Pallone d’oro, retrocedendo da Ronaldinho a Cannavaro, fotografa il calcio essenziale dei tempi post-moderni in cui è aumentato il numero sulle maglie dei giocatori, ma lo spettacolo è diminuito, e gli assi sono scomodi perché uomini liberi che si sottraggono ai ceppi strategici.
    Un piccolo, grande gladiatore vince su tutti, in un anno storico,  protagonista di un Mondiale che l’Italia ha esaltato con la grinta e la prudenza tagliando man mano un attaccante dietro l’altro perché l’importante non è più giocare ma vincere difendendosi. Il calcio pitagorico del 4-4-2, 3-4-3, 5-3-1-1, 3-4-2-1 ha ucciso le ali, trasforma i terzini in folli corrieri, immortala Gattuso ed esilia Baggio e Zola, com’è capitato, costringe il centravanti a una solitudine infinita ed è solo un calcio di corsa e di falli tattici. Ha perduto il gusto del gioco e la bussola. Nella confusione dei nuovi ruoli, fra mezze punte, mezze tacche, incontristi e centrocampisti tristi, la grande scuola italiana declina mentre si importano portieri brasiliani, il massimo di una ricerca naif, e difensori sudamericani quando, nei tempi felici, in quei paesi cercavamo danzatori del gol, registi di fantasia, giocolieri immaginifici inseguendo il sogno e lo scopo del gioco: attaccare e segnare nella maniera più deliziosa e sorprendente possibile.
    Professorini e professoroni di Coverciano hanno imposto la tattica, strumento di una logica inesistente in un gioco che non è il gioco degli scacchi, ed è piuttosto la falsa merce venduta per spillare contratti d’oro a presidenti creduloni, così siamo alle partite tutte uguali, ai comizi a centrocampo, al palleggio monotono dell’ormai insopportabile possesso-palla che ha un senso solo nel basket, e per 90 minuti non c’è lo straccio di una invenzione sorprendente con biglietti che costano sino a 240 euro per vedere niente. Si grida al miracolo se il romanista Aquilani esegue una “rabona”, il mancino colpo sotto del pibe de oro, e il centravanti di Lipari Christian Riganò si produce in un “sombrero”, numeri che dovrebbero essere un’attrazione costante, per 240 euro, almeno in percentuale superiore al deplorevole “fallo da dietro”.
     In queste condizioni, non è una sorpresa che il Pallone d’oro  e il premio della Fifa abbiano eletto un difensore a paladino del gioco nel quale, oggi, tutto si distrugge e nulla si crea col trucco della celebratissima “zona” che è una tattica essenzialmente difensiva. Circostanza felice è solo la scelta di un guaglione napoletano dal viso simpatico, ragazzo leale, persino sex-symbol e fotomodello di spot pubblicitari. Cannavaro è comunque il viso sorridente del calcio, scugnizzo allegro, feroce ma corretto spazzatutto, campionissimo nel suo ruolo. La sua concreta e irresistibile grazia fa accettare l’incoronazione, ma lui stesso ne è rimasto sorpreso.
     A Fabio tutti i meriti e nessuna colpa se nel giardino che fu del principe Lanza di Trabìa a Palermo non danza più il leggiadro danese Helge Christian Bronée, lo zingaro del calcio, finissimo palleggiatore, ma un difensore simpatico come il boy della Loggetta, con piede pulito ed eleganza di gambe, spedisce il pallone alle stelle.
    Perciò siamo tutti contenti che “palla di gomma” ce l‘abbia fatta a scagliare il pallone nel firmamento delle stelle del calcio e, di rimbalzo, gliene è tornato uno d’oro. Nella città che gioca al calcio nella Galleria Umberto, guaglioni notturni con una maglia azzurra, negli spiazzi delle periferie, sullo stradone del Parco delle Rimembranze, anche Fabio Cannavaro cominciò dalla strada, sul selciato antistante lo stadio “San Paolo”. Il pallone era già corso in famiglia da nonno Renato a papà Pasquale, che aveva giocato in serie C e portava Fabio con sé nei ritiri del Casale Posillipo, l’ultima squadra in cui giocò. Dalla strada all’Italsider di Bagnoli, a otto anni, poi Rosario Rivellino, stopper elegante e poi allenatore e dirigente prezioso, portò Fabio tra i “giovanissimi” del Napoli. Rivellino assicurò Cannavaro, lo sfortunatissimo Ciro Caruso (altro difensore di grande qualità) e Gagliotti al Napoli in cambio di un bigliardo, sì proprio un bigliardo, espressamente richiesto dal Cral dell’Italsider che, per statuto, non poteva incassare soldi. Primo grosso impegno di Fabio: raccattapalle negli anni di Maradona. Voleva diventare Ciro Ferrara, ammirava la grinta di Nela e stravedeva per Rudy Krol. Per diventare un mix dei tre campioni, d’estate, a Sapri, giocava a pallone per interminabili giornate nel camping “Europa unita”. In tutti i sensi, un difensore venuto dal mare.
     E’ stato l’ultimo prodotto d’eccellenza del vivaio del Napoli vincendo il suo primo scudetto con la squadra Allievi, a 14 anni, svezzato da Riccardino De Lella, uno degli ultimi appassionati maestri dei piccoli calciatori napoletani, vent’anni nelle giovanili azzurre. Quei maestri sono un po’ scomparsi. Al tempo di Juliano e Montefusco ragazzini, diciamo dagli anni ’50 ai ’60, ne girava uno per le strade e i campetti di Napoli, un uomo piccolo e robusto, calvo, l’abbronzatura perenne, burbero e paterno. Si chiamava Giovanni Lambiase, talent-scout ruspante, Diogene del pallone che cercava con la lanterna del suo sesto senso il campione del futuro. Prima del fiorire delle scuole-calcio, la strada era proprio la scuola dei calciatori in erba. E, alle giovanili del Napoli, i ragazzi trovavano un uomo buono e generoso, che ne sorvegliava la vita, gli studi e i progressi sul campo. Si chiamava Paolo Fino, nolano, impiegato al Comune di Napoli, che dedicò tutta la sua vita al vivaio azzurro, uomo di fiducia più che dirigente, però popolarissimo ai tornei giovanili. Accompagnava i giovani calciatori a scuola con la sua sgangherata utilitaria e gli era sempre vicino. Molto è cambiato. Oggi, i ragazzi sono subito attenti alle griffe dell’abbigliamento sportivo prima ancora che al pallone sognando anzitempo un gol e una velina.
    C’è stato un buon periodo del vivaio azzurro da cui sbocciarono i quattro moschettieri Juliano, Montefusco, Improta e Abbondanza “il sivorino”, poi Nino Musella, il ragazzo dalle straordinarie capacità tecniche che non volle diventare Rivera distraendosi con troppe fughe dai ritiri. Successivamente, allenatori di carisma come Sormani, Canè, Rivellino, Mariolino Corso esaltarono il vivaio napoletano. Ciro Ferrara e Fabio Cannavaro sono stati gli ultimi gioielli, Fabio ceduto troppo presto, a 22 anni, per esigenze di bilancio. Fino a poco tempo fa si leggeva ancora su un muro della Loggetta, il suo quartiere, la scritta: “Cannavaro non firmare”. Era già pronto per lui il contratto del Parma.
    Ferrara e Cannavaro, due difensori. Mettiamoci che nella suggestione dei loro sogni c’era un esempio mirabile, Peppe Bruscolotti, il guerriero azzurro di 511 partite.
    Sta tornando, nel Napoli, la voglia e l’ambizione di crescere campioni in casa. Il settore giovanile va riprendendo quota, diretto da Giuseppe Santoro e con la supervisione di Enzo Montefusco. Ragazzi sbocciati proprio dal vecchio centro di Marianella, dove la “Primavera” del Napoli vinse lo scudetto del 1979, sono i nuovi maestri, in testa Gigi Caffarelli, l’apache del quartiere Sanità, campione d’Italia col pibe de oro, e, tra loro, Ivan Faustino, 37 anni, figlio del popolarissimo Canè.
                                                                                                      
Mimmo Carratelli

Nelle foto: in alto, Fabio Cannavaro con il Pallone d'Oro durante la premiazione a Parigi; al centro, Cannavaro (il ragazzo con il dito alzato) raccattapalle al San Paolo, durante i festeggiamenti per lo scudetto del Napoli nel 1987; in basso , a San Gregorio Armeno si preparano i pastori con Cannavaro.

 

Beato, masseur  gentile dalle mani d'acciaio


   Una vita con il Napoli e per il Napoli, una vita a fare massaggi con le sue mani d’acciaio, ad ascoltare confidenze, malumori, accuse, a mediare tra dissidi di spogliatoi, a raccogliere maldicenze, sfoghi, risentimenti. Chissà quanti segreti ha portato con sé. Superstizioso, come tutti i napoletani, distribuiva e suggeriva riti scaramantici negli spogliatoi.
    Severo e affettuoso insieme. Nell’elenco degli “indimentica bili"della società azzurra non può mancare Michelangelo Beato, massaggiatore dagli ultimi Anni Venti per quaranta stagioni. Un'istituzione. Ha distribuito scampoli di cronaca, di aneddoti, oltre che caramelle al miele agli amici, ai ragazzini e ai giovani giornalisti. Non aveva peli sulla lingua e per questo è stato amato e temuto..
    Raccontano che fu molto legato ad Ascarelli e Garbutt. Sotto la loro guida era avvenuta, tra l’altro, la sua successione al massaggiatore in primis, De Palma. Prima di quell’incarico, Beato  era diventato popolare girando la domenica all’ Ascarelli, intorno al campo con un grande cartello recante il nome dell’arbitro designato, ed era l’unica informazione che i giornali non riportavano ancora e non si era fatto in tempo a stampare sui “programmi” della partita distribuiti allo stadio. In giro a braccia alzate, un po’ come le belle ragazze che annunciano la sequenza dei round sul ring di boxe.
   Con mister Garbutt , l’attento e fido Michelangelo, anche in base ai suoi particolari punti di vista,  collaborò pure nei servizi di “ronda” negli alberghi per evitare (non tanto per segnalare) inopportuni incontri tra giocatori e disponibili signorine.
      I maligni rivelarono le sue tendenze poco maschie, nonostante la forza dei suoi bicipiti. E sul campo, nel completo anonimato, qualcuno osò anche sfotticchiarlo, per i suoi modi…gentili. Il compianto, valoroso, attento giornalista de "Il Mattino", Mario Vitelli raccontava che una volta allo stadio del Vomero un tifoso dagli spalti gli gridò più volte durante un allenamento tra gli azzurri : “Nanninè, chi è chillu centravant?”. E Beato, stanco delle insinuazioni insolenti e alquanto risentito, girandosi verso le tribune, rispose con calma e determinazione al tifoso anonimo: “Chillu centravanti è Sartori. E nanninella è chella stuppola ‘e soreta”. Personaggio dalla battuta sferzante, collaboratore e amico di tutti negli spogliatoi, tranne che per i falsi e gli antipatici, tra cui annoverò l’allenatore Amadei, accusato di servilismo nei confronti del Comandante Lauro (che frequentemente riceveva a rapporto il tecnico del Napoli seminudo sul suo terrazzo, al mattino all’ora di colazione, mentre faceva le flessioni in costume adamitico e mangiava frutta sotto lo sguardo involontario e scandalizzato delle suore del palazzo di fronte). Così quando l’attaccante Manuel Del Vecchio, dopo uno sgarbo, aggredì Amadei negli spogliatoi, Beato accorse tra i primi, dando l’impressione che volesse dividere i contendenti, ma in effetti tenne stretto l’allenatore finchè Del Vecchio non mise a segno un bel pugno. Poi con grande gaudio andò a premere il batuffolo intriso d’alcol sulla parte lacero contusa dell’antipatico mister Amadei, accompagnando il  gesto con una strizzatina d'occhio.
   Con la sua lunga militanza in azzurro, il suo ruolo confidenziale con i giocatori, i contatti con i dirigenti e la Stampa, Beato avrebbe potuto scrivere la più gustosa e documentata storia del Napoli. Anche da pensionato, infatti, continuò a frequentare gli spogliatoi del San Paolo. Ma improvvisamente il filo si spezzò con la sua tragica morte. Fu investito da un camion in retromarcia al Vomero.

Nelle foto, in alto a sinistra Michelangelo Beato giovanissimo nel Napoli di Garbutt (alle sue spalle c'è Vojak con il suo solito basco); a destra Beato massaggiatore negli Anni Settanta; infine, Beato con il presidente Roberto Fiore nel campionato 1964-65.