Un romanzo lungo cent'anni
di Romolo Acampora

             
In principio fu il Naples 

   Era l'anno di grazia 1904, il Naples Cricket and Football Club - nato come sezione del Circolo Canottieri Italia - muoveva i primi passi sul Campo di Marte, dalle parti di Capodichino. Sulle cronache cittadine nel racconto delle sue gesta trovavano più spazio i merletti mondani ("Notate la marchesa Cutinelli e la figliola, madame Guidat Durreye con la graziosa figliola, la viscontessa de Melissand... e la più assidua a bordo campo... la duchessa Paduli") che i dettagli tecnici degli incontri fra i rampolli annoiati della nobiltà e della borghesia cittadina, i signorini Scarfoglio (Michele e Paolo, che il fondatore de Il Mattino aveva avuto da donna Matilde Serao), Giolino, Bayon, Treves... In porta, Michele Conforti se la prendeva comoda; portava tra i pali una sedia e, quando l'azione si svolgeva nell'altra metà campo, si accomodava tranquillo e scambiava quattro chiacchiere con chi seguiva l'avvenimento nei pressi.
   La maglia era blu e celeste, il presidente Luigi Salsi, imprenditore edile di origini emiliane. Di questa preistoria incerta e controversa restano racconti di campi polverosi, trasferte avventurose ed una data: il 16 aprile 1910 il Naples in trasferta a Palermo sconfigge la squadra locale per 2-1 e conquista il Lypton Trophy. Per dare enfasi internazionale all'impresa un cronista un po' avventato trasformerà in maltesi i calciatori palermitani. Nella capitale della tazzulella 'e cafè arriva il primo trofeo calcistico messo in palio, ma guarda un po' tu, dal magnate del the.
    Sbarcato all'Immacolatella con i marinai dei bastimenti inglesi alla fine del secolo precedente, andato in scena tra l'indifferenza generale al Mandracchio, divenuto passatempo degli altoborghesi cacciatori di mode, il calcio si trasforma nel volgere di brevi anni in fenomeno popolare. E spesso la cronaca da rosa diventa nera con episodi di scazzottate prima, poi risse ed invasioni di campo. Sulla scena, si fa per dire, cittadina il Naples non era solo; esistevano la Sportiva Napoli, la Juventus, la Robur, la Ginnastica Partenopea; oltre la grotta di Mergellina, la Bagnolese.
    Mentre al Nord il passatempo di moda diventò presto una disciplina sportiva, a Napoli per lunghi anni continuò ad essere un passatempo. Per cui se due o tre giocatori litigavano con il resto della comitiva, non ci pensavano su due volte per fondare un'altra squadra, tutta propria. Nel 1911 alcuni soci si staccarono dal Naples e fondarono l'Internazionale, maglia blu notte, primo presidente Luigi Stolte, che aveva provocato la scissione con Ettore Bayon, Paolo Scarfoglio, lo svizzero Hasso Steinegger, Adolfo Reichlin proprietario delle Cotoniere Meridionali, Augusto Barbati. L'Internazionale fece le cose il grande: arrivarono calciatori stranieri (Ostermann, Little, Kock, Flowes) e costruì un proprio campo di giuoco ad Agnano, recitandolo con un muro. Per la prima volta gli spettatori furono costretti a pagare un biglietto d'ingresso, costo cinquanta centesimi.
   Napoli spendeva gli spiccioli rimasti di un'Arcadia perduta. Impazzavano il cinematografo e le sciantose del varietà, l'onore era reclamato e lavato a suon di duelli, nel porto veniva stipata sui bastimenti un'umanità dolorante. Superficiale, la città prese ad appassionarsi a questo nuovo giuoco. La prima sfida tra Naples ed Internazionale, ai campionati regionali del 1912, fu epica. Furono necessarie cinque partite. All'andata vinse l'Internazionale, il ritorno fu appannaggio del Naples. Fu necessaria una bella. Alla presenza di ben (!) trecento spettatori, arbitro il torinese Armanni. Alla fine era pareggio, quindi supplementari ad oltranza. Dopo due ore e ventuno minuti era ancora 1-1 ed era ormai buio. La domenica successiva nuova partita e nuovo pareggio, 2-2. Al quinto tentativo l'Internazionale battè il Naples. C'erano volute nove ore. Nella foto, in alto il Naples 1911 e al centro il gagliardetto del Napoli 1926
                                         
Attila Sallustro, il primo idolo

  Battagliavano ancora, Naples ed Internazionale, quando scoppiò la guerra; anzi la Grande Guerra. Nelle trincee in riva al Piave resterà per sempre Valle, un ragazzo del Naples. In città scendevano in campo i riformati, contro formazioni dei calciatori-soldati del distretto militare o delle navi alla fonda. Il calcio ormai stava per diventare il passatempo preferito degli italiani, sempre più giocato, visto, chiacchierato. Quasi a volersi prendere una rivincita su paure, distruzioni, lutti, alla fine della guerra fu un'esplosione di squadre: un oriundo sudamericano aprì un bar nella Galleria Umberto e fondò una squadra con il nome del proprio locale, Brasiliano; nacquero la Juventus, la Pro Napoli, la Libertas. Ma i club più popolari erano sempre Naples ed Internazionale, anche se quasi puntualmente battute da formazioni provinciali. I bilanci disastrati, il Naples della Pignasecca e l'Internazionale di via Medina si fusero per diventare Internaples (1922). La proposta - pare, ma gli Erodoto della materia sul dato sono in disaccordo- fu di Giorgio Ascarelli, anche se il primo presidente del nuovo club fu Emilio Reale.
   La divisa di giuoco, maglietta azzurra con risvolti celesti. Continuarono le stagioni di puntuali sconfitte contro Puteolana, Savoia, Bagnolese, Cavese per la squadra che aveva nel suo gagliardetto l'emblema cittadino del cavallo; ed al bar Brasiliano, ritrovo di sconfortati sostenitori, quattro anni più tardi risuonerà con ironia tutta partenopea la battuta che della squadra segnerà la storia ed il destino: chisto pare 'o ciuccio 'e fechella, trentaseie chiaje e 'a coda fraceta.
    Le delusioni non spengono mai le passioni. Giorgio Ascarelli, assurto alla presidenza, impresse una prima svolta alla filosofia societaria sollecitando l'inserimento del diciassettenne astro nascente Attila Sallustro accanto ai suoi grandi acquisti, l'ex nazionale Carcano, giocatore-allenatore, ed una mezzala destinata ad una luminosa carriera, Giuanin Ferrari; lautamente pagati loro due. Nel 1926 con il primo campionato a carattere nazionale nacque, il primo agosto, l'Associazione Calcio Napoli. Non sarà una stagione esaltante: nemmeno una vittoria, ultimo in classifica e retrocesso, ma salvato d'autorità dalla Figc. Il primo presidente era stato, naturalmente, il vulcanico Giorgio Ascarelli. Ricco industriale, ebreo, prima di morire quattro estati più tardi trovò il tempo per regalare al Napoli (a proprie spese) il suo primo vero stadio ed il suo primo vero allenatore, William Garbutt.
   Vennero gli anni della scapigliatura. Era il 1930. Napoli impazziva per Attila Sallustro e per Lidia Johnson, vedette delle Folies Bergeres. Una domenica Attila andò al Teatro Nuovo e si accomodò in un palco. Il pubblico scattò in piedi e gli tributò un'ovazione, interrompendo lo spettacolo. Al termine, nei camerini, la Johnson presentò al campione la figlia Elena, sedicenne ballerina di fila. Aveva come nome d'arte Lucy D'Albert e misure mozzafiato: 94, 62, 94. Tra il re dello stadio e la prossima regina del palcoscenico nacque qualcosa. Napoli aveva anticipato quasi di un secolo il costume. Nella foto, Sallustro con la moglie Lucy d’Albert.


Con Garbutt, Napoli "grande"

   I
l 23 febbraio 1930, sette mesi dopo l'inizio dei lavori, fu inaugurato lo stadio regalato alla città da Giorgio Ascarelli, napoletano del Pendino. Era di scena la temibile Juventus di Combi, Mortarotti, Caligaris, Varglien, Viola, Bigatto, Barale, Zanni, Munerati, Cesarini, Orsi. In maglia azzurra Cavanna, Vincenzi, Innocenti, De Martino, Roggia, Zoccola, Perani, Vojak, Sallustro, Mihalic, Buscaglia. Finì due a due, reti di Munerati ed Orsi, doppietta di Buscaglia. Diciassette giorni più tardi, all'alba del 12 marzo, una peritonite fulminante stroncò Giorgio Ascarelli. La città gli tributò un funerale memorabile, la squadra gli dedicò un pareggio per due a due la domenica successiva sul campo del Milan. Sull'onda dell'emozione venne intitolato a lui il suo stadio; salvo a ribattezzarlo Partenopeo qualche anno più tardi, ampliato e rimodernato: sarebbe stato onorato dalla presenza di Hitler, e se qualcuno, non si sa mai, gli avesse raccontato che lo stadio era intitolato ad un ebreo...
   Ascarelli aveva gettato fondamenta solide, il pilastro principale era mister Garbutt; con lui in cinque anni il Napoli su 200 partite ne vinse quasi la metà, 92, pareggiandone 42. Alla presidenza si accomodò il duca Giovanni Maresca di Serracapriola. E non badò a spese. Dal Torino arrivò Enrico Colombari, mediano di ferro ma dal carattere impossibile. Era costato 250mila lire. Dalla radio una canzone faceva sognare gli italiani. "Se potessi avere mille lire al mese...". I napoletani già fantasticavano sfracelli, ma non avevano perso il senso dell'ironia. La prima volta che Colombari, perso l'equilibrio, finì a terra, dalle tribune si levò il lazzo mordace: è caduto 'o banco 'e Napule!
   Sallustro andò militare, a tenere in piedi la baracca furono i gol del fiumano di ferro Vojak. Lontano dalla zona scudetto, il Napoli -pur tra debiti, rivolte della squadra, episodi boccacceschi in ritiro- riusciva a resistere nella zona alta della classifica e a nutrire sogni di trionfi internazionali. In Coppa Europa potrebbe centrare l'obiettivo; contro gli austriaci dell'Admira arriva alla terza partita ma sul campo neutro di Zurigo crolla clamorosamente per 5 a 0. Accusato di scarso impegno a Sallustro toccarono 2.500 lire di multa e la perdita della fascia di capitano. Offeso per le allusioni alla sua vita privata ('a russa, Lucy D'Albert, considerata la causa dello scadimento di forma) al termine di un furibondo litigio con il presidente dell'epoca, Luigi Savarese, sbatterà la porta e per due mesi non si farà vedere sul campo d'allenamento.
   Ormai il bel giocattolo era irrimediabilmente rotto. Ed entrò in crisi anche l'imperturbabile Garbutt, arrivato a Napoli con la segreta speranza di ripetere all'ombra del Vesuvio le imprese di Genova, dove aveva vinto tre scudetti. Quella stagione si concluse malinconicamente con un settimo posto che concluse l'era-Garbutt. Salì su un treno, direzione Bilbao. Qualcuno disse di averlo visto piangere. Morto da tempo Ascarelli, via lui, era la fine del primo Napoli da rispettare. Nella foto, Cavanna e Vincenzi due pilastri del Napoli di Garbutt.
 
Lauro non poteva dire di no al Fascismo

   A
Palazzo Venezia c'era una finestra sempre illuminata, anche di notte, Lui lavorava per le magnifiche sorti e progressive dell'Italietta. Lavorò anche per il calcio, in cinquant'anni diventato un fenomeno nazional-popolare, quindi da controllare, indirizzare, sfruttare come tutto il resto del Belpaese.
   Mussolini fece indossare la camicia nera anche a quel divertimento inventato dalla perfida Albione. E lo fece con due innovazioni fondamentali. I calciatori diventarono proprietà delle società per cui erano tesserati e la cifra pattuita per il loro trasferimento doveva essere depositata, in contanti, in un ufficio federale in maniera da impedire gli indebitamenti per potenziare le squadre. Già allora, ma lo era stato quasi da subito, il calcio produceva soltanto deficit.
    Il Napoli, quanto a debiti, era tra le società prime in classifica. Per cui nella seconda metà del 1935 dovendosi risollevare le sorti di club e squadra venne imposto a facoltosi imprenditori l'ingresso nel consiglio direttivo. Fece il suo ingresso sulla scena di Napoli e del Napoli un sorrentino che da mozzo s'era fatto armatore. Sei mesi più tardi (15 marzo 1936) il federale della città dirà ad Achille Lauro: "Sono chiamato in Africa dal mio dovere d'italiano e di fascista. Ti manderò una mia creatura, prendine cura".
   Tornato a casa, Lauro comunicò a donna Angelina che bisognava attrezzare una stanza per un nuovo ospite. La mattina successiva nel suo ufficio si presentò il vice-federale con i libri contabili ed i debiti del Napoli: 266mila lire. Non era impresa da scoraggiare uno come lui, abituato ad attraversare le tempeste di tutti gli oceani ed a riportare sempre a casa la pellaccia.
   Al fascismo, che gli aveva permesso di ingrandire la flotta ed era il suo miglior cliente, non poteva dire di no. Lo avrebbe fatto alla sua maniera, rimettendoci il meno possibile: 190mila lire furono ricavate dalle cessioni di Ferraris II e di Busoni, 60mila lire dovette rimettercele, invece, di tasca propria.
   La squadra fu rivoluzionata ma riuscì ad evitare per un pelo la retrocessione: finì quart'ultima. Ed allora, via con un'altra rivoluzione; portò in maglia azzurra un triestino che avrebbe lasciato un segno nella storia del calcio non soltanto italiano, Nereo Rocco, il futuro "paron" che negli ultimi anni dell'esistenza nella ventosa casa triestina ricorderà ancora con nostalgia gli anni vissuti al Vomero, il tenace Mian ed il terrificante Pretto.
   Ad ogni fine di campionato le recriminazioni superavano, però, le soddisfazioni; e Lauro, imperterrito, continuava a rivoltare la squadra, il Napoli era come un grand hotel, chi parte e chi arriva. La stagione '39 -'40 fu al vero brivido: salvezza raggiunta all'ultima giornata addirittura per soli sette centesimi di punto nel quoziente reti!
   Il 10 giugno 1940 all'oceanico gregge festante fu partecipato l'ingresso in guerra. Cinque giorni più tardi Lauro lascerà la presidenza all'ing. Gaetano Del Pezzo: doveva badare alla "sua" creatura, la flotta, con incrociatori e sommergibili nemici nel Mediterraneo non si annunciavano giorni sereni. La prima era-Lauro non lascerà tracce gloriose nel palmares societario ma una stupefacente novità nel libri contabili, il bilancio in pareggio. Nella foto, Lauro sul campo si ripara dalla pioggia con un fazzoletto annodato in testa.


La difficile rinascita nel dopoguerra

  Furono anni di lutti e distruzioni, Napoli ed il suo porto erano al centro dei raid compiuti dagli aerei inglesi partiti dalla base maltese; più tardi si aggiungeranno quelli americani, e non sarà un miglior affare. Sui muri c'erano gli slogan: credere, obbedire, combattere. I napoletani - nel nostro caso calciatori e tifosi - fecero finta che niente stesse accadendo per non guadagnarsi la scomoda etichetta di disfattisti ed a modo loro credettero, obbedirono e combatterono. Furono sconfitti anch'essi. Nuovo presidente, dopo la minaccia della FIGC di escludere il Napoli dal campionato per morosità, era il federale in persona, il conte Tommaso Leonetti; avrà la dignità (o l'accortezza?) di dimettersi dopo tredici mesi (19 ottobre 1941). L'onta della prima retrocessione in serie B toccherà così all'ennesimo commissario della società, il malcapitato Luigi Piscitelli.
   Si continuava a giocare, ma per imposizione più che per gioco. La notte passata nei ricoveri, il giorno impegnati ad inventarsi come superare le restrizioni delle tessere annonarie i napoletani non potevano certo trarre conforto dai risultati della loro squadra; il decisivo scontro-promozione con il Modena nell'ultima giornata di campionato andò in scena al Vomero, i bombardamenti s'erano accaniti anche sullo stadio Partenopeo rendendolo inagibile. A due minuti dal termine il modenese Eliani in contropiede uccellerà con un pallonetto Chery Sentimenti uscito fuori dai pali. Sconfitta, ed addio ritorno in A.
   L'Italia divisa in due, gli alleati sbarcati in Sicilia il 9 settembre '43, il fascismo caduto, era scomparso anche il campionato unico sostituito da tornei a carattere regionale. A Napoli erano iniziati i rastrellamenti dei tedeschi, la città risponderà con le "Quattro giornate". Sullo sfondo, il bagliore del Vesuvio che partecipa alla sua maniera prima di cadere in profondo letargo. Com'era Napoli, passata 'a nuttata? 232.420 vani distrutti o inabitabili, 22mila civili morti, l'economia annientata, niente gas, niente luce, la fila alle fontanine per l'acqua; per le strade segnorine e sciuscià, ordinarie scene da "pelle" malapartiana. Eduardo De Filippo intanto aveva scritto "Napoli milionaria", sarà rappresentata per la prima volta il 26 marzo 1945 al Teatro di San Carlo; il suo dolente messaggio di speranza era naturalmente valido anche per vicende cittadine del pallone. Al bar Pippone, in via Santa Brigida, s'era infatti ripreso a parlare di calcio già l'anno prima.
   A maggio era nata, per iniziativa del giornalista Arturo Collana, la Società Sportiva Napoli; il 1 giugno la Società Polisportiva Napoli, auspice Gigino Scuotto, uno dei più abili dirigenti mai nati a Napoli, artefice di miracoli di cui non si potrà mai vantare in pubblico. Dopo lunghe trattative i due sodalizi, il 19 gennaio dell'anno successivo, si fusero nell'Associazione Polisportiva Napoli; presidente, per un mese e due giorni, proprio Gigino Scuotto ben lieto di cedere l'incombenza all'ing. Savarese e di occuparsi, quale suo vice, di cose concrete, come il reperimento di un campo per partecipare al campionato regionale. Inagibile l'ex Ascarelli, requisito dagli alleati il Vomero, riuscì a farne allestire uno alla bell'e meglio all'interno dell'Orto Botanico a via Foria. Nella foto, una coda per l'acqua a Napoli,  in Piazza del Plebiscito, durante la guerra.

Da Monzeglio alla coppia Jeppson-Vinicio

   Erano i giorni delle am-lire, della polvere di piselli, del "re di Poggioreale" che riportava in Duomo il tesoro di S.Gennaro, del "re di maggio" in partenza per l'esilio a Cascais perché l'Italia aveva scelto la repubblica (Napoli, in controtendenza, si esprimerà per la monarchia), di 417 ragazze imbarcate sulla "nave delle spose" in viaggio verso il matrimonio con altrettanti paisani.
    Dopo una scialba stagione vivacchiata nel campionato regionale (1945), e la partecipazione al campionato misto del Centro-Sud ('45-'46) con una squadra costata 7 milioni, il Napoli di Andreolo, Lustha, Rosi e Barbieri conquisterà la A e una nuova denominazione sociale: il 20 febbraio '47 riecco l'Associazione Calcio Napoli di ascarelliana memoria. In scena comprimari più che prim'attori. Alla prima stagione nel tentativo di salvare l'annata tenteranno di comprare una partita a Bologna. Processo per corruzione e retrocessione per stabilire, l'anno dopo, un altro primato tragicomico: l'affidamento dei pieni poteri a    Domenico Mattioli, il presidente della rivale Salernitana militante nello stesso torneo!
   Egidio Musollino, presidente con Scuotto vice, capì la lezione e decise di assumere l'allenatore della Pro Sesto, un ex campione del mondo: Eraldo Monzeglio. Dai tempi di Garbutt non era arrivato a Napoli un uomo capace di guidare con mano ferma un ambiente così vulcanico; più tardi sospirerà: "qui non avrete mai niente di buono". Fu promozione al primo tentativo e forse sarebbe stato l'inizio di un ciclo vincente se all'alba del 22 febbraio 1951, svegliato dall'incendio del ristorante D'Angelo su cui si affacciava la sua abitazione, Musollino non fosse stato stroncato da un infarto. La successiva diarchia Cuomo-Scuotto portò contrasti e niente quattrini. Si bussò alla porta di Achille Lauro; l'8 agosto accettò la presidenza onoraria, il 29 aprile dell'anno successivo pagherà parte dei debiti e, messa in liquidazione la vecchia A.C.Napoli, darà vita ad un altro sodalizio con la medesima denominazione sociale di cui era il maggior azionista. Come se 11 fossero stati un brutto sogno. Era sopravvissuto alla guerra, al confino, alla distruzione della flotta. Era di nuovo 'o comandante e la sua storia personale sarà, per sua volontà stavolta, intrecciata a quella del Napoli. "Per un grande Napoli ed una grande Napoli vota Lauro" fece scrivere anni dopo sui palazzi della città. E Napoli gli regalò 300mila voti e Palazzo S.Giacomo. In contraccambio ebbe Jeppson, pagato 105 milioni, e Bugatti, e poi Vinicio.
   Nessuno sembrava in grado di contrastarlo, tranne Monzeglio, capace di metterlo alla porta degli spogliatoi dove s'era presentato con un codazzo di cortigiani. Il clima da basso impero, le trame di Amadei, metteranno fine alla prima stagione napoletana del galantuomo don Eraldo. L'interregno di Frossi durerà 4 giornate, poi Amadei in panchina. Invano esporranno uno striscione: vendetevi l'anima, ma non Vinicio. Amadei nel '60 fece vendere Vinicio ed acquistare Pivatelli, Baldi, Gratton; nel corso della stagione gli affiancarono come dt un mito, Renato Cesarini. Fu B. L'anno successivo Pesaola conquisterà la promozione (e la prima Coppa Italia del club), nonostante una storia di corruzione liquidata con la squalifica di personaggi minori. Poi di nuovo una retrocessione ed un altro anno di purgatorio. Fino all'ennesima rivoluzione societaria. Nella foto, Jeppson e Vinicio.

Il  colpo di Fiore:  Sivori e Altafini

  Nella stagione precedente era stato stabilito un altro primato: il Napoli s'era fatto beccare con le mani nel sacco al controllo antidoping appena istituito; un cocktail di simpamina e caffeina. Michelangelo Beato, una vita a far massaggi ed ascoltare mugugni, pensò che i giudici l'avrebbero bevuta: tutta colpa del mio caffè, troppo ristretto. L'abilità di Scuotto limitò i danni alla squalifica per un mese inflitta a quattro calciatori. Ma le ragioni del crollo erano altrove; conduzione societaria inadeguata, mezzi finanziari ancor più carenti. Lauro si dimise. Ma non uscì dalla scena, tenacemente abbarbicato al proprio mito. La flotta non era più una miniera d'oro, il boom del trasporto aereo la rendeva superata. In aprile la crisi comunale portò a palazzo San Giacomo un commissario prefettizio, alle amministrative di ottobre i monarchici laurini saranno sorpassati dai democristiani. L'autunno del patriarca volgeva già all'inverno.
    Il vecchio leone continuava a battersi, il Napoli non intendeva mollarlo, ad onta del pauroso deficit finanziario. Ci volevano quattrini freschi, Lauro a suo dire già creditore di 480 milioni non intendeva sborsarli. Si formarono due cordate per rilevare l'A.C. Napoli in liquidazione. Il comandante, con collaudata abilità, mise gli uni contro gli altri, poi scelse la soluzione che gli sembrò più conveniente per i suoi interessi e le sue ambizioni. Il 25 luglio 1964, con atto del notaio Monda, nacque la S.S.C. Napoli SpA; capitale sociale 120 milioni di cui 80 effettivamente versati. Lauro per rinunciare al suo credito ebbe il 40% del pacchetto azionario; il 21% andò a Roberto Fiore, da poco entrato a far parte della vasta schiera dirigenziale, il 30% ad Antonio Corcione che mandato a corrompere il portiere veronese Ciceri s'era fatto carico di tutte le colpe del tentato illecito e della conseguente squalifica.
   Eletto presidente, Fiore richiamò Pesaola e l'ultima giornata di campionato sancì (vittoria sul campo del Parma già retrocesso) il ritorno in serie A. Quel traguardo fu un trampolino dal quale Fiore spiccò il volo: ahilui, troppo in alto, e fece la fine di Icaro. Fiore gongolava quando la sua corte lo definiva "presidente tecnico". In effetti, profondo conoscitore di Napoli, era un abile organizzatore di spettacoli calcistici. I consigli tecnici erano di Pesaola, lui se ne prendeva i meriti. Allestì una campagna acquisti faraonica, puntando su campioni collaudati da mettere al fianco di Antonio Juliano, di Enzo Montefusco, di Faustinho Canè. Andò al Gallia e dal presidente milanista Riva ebbe per 270 milioni Josè Altafini già promesso da Viani alla Juve per 300 milioni. Poi seppe (dal solito Pesaola) che Sivori, in rotta con Heriberto Herrera, doveva essere ceduto al Varese. Sivori valeva 300 milioni, come acquistarlo? Chiese aiuto al comandante. Lauro telefonò ad Agnelli e s'accordarono: la flotta comprava i motori per l'Achille Lauro e l'Angelina Lauro, le sue nuove ammiraglie, Sivori veniva ceduto al Napoli per 90 milioni, pagamento biennale. Altafini arrivò in aereo e la pista di Capodichino fu invasa dai tifosi; Omar scelse il treno. Alla stazione di Mergellina ad accogliere il più estroso degli angeles de la cara tinta erano in diecimila. Nella campagna-abbonamenti Fiore contò 800 milioni. Nella foto, il trio d’attacco del Napoli: Sivori, Altafini e Canè.

La breve parentesi di Gioacchino

  Fu un'annata di sbornie colossali. Juve al San Paolo, gol vincente di Altafini ed il "cabezon" ad allacciarsi la scarpetta nei pressi della panchina dell'impassibile Heriberto per sputargli in faccia il suo hjio de puta; pronto a restituire la cortesia al brasiliano, missile vincente nella porta di Barluzzi. Josè ringraziò con l'abbraccio di prammatica ma non aprì bocca. Il trionfo, l'estasi, la popolarità non consigliarono prudenza a don Roberto; ormai si sentiva il mondo in tasca, il terzo posto finale non era un traguardo, vedeva inevitabilmente vicino lo scudetto, il primo scudetto. Allora via con altri acquisti: lo Stiles bresciano Ottavio Bianchi, il bullo delle notti romane Alberto Orlando, nei piani di Pesaola l'ariete da mandare in area avversaria ad aprire varchi per Altafini, che alle caviglie teneva. Record di abbonati, 69.344. Chi impediva più a Fiore di considerare concreti i sogni?
   Ma, nell'ombra, Jago era al lavoro. Qualcuno racconterà a Lauro di stranezze nella regolarità dell'amministrazione societaria, il comandante farà pubbliche allusioni, senza uno straccio di prova. Racconteranno a Lauro anche che 'a chiattona allo stadio aveva urlato "Robertììì, si' bello!". E no, questo no. L'ammirazione alla virilità aveva da essere per lui soltanto. E poi, come s'era permesso di accettare l'incarico federale di commissario per uniformare lo statuto societario a quello predisposto dalla FIGC senza chiedergli il permesso? Lavorato ai fianchi per settimane, con Corcione passato dalla parte del comandante, Fiore fu costretto a dimettersi. Lo farà il 27 dicembre con una lettera pubblica ai tifosi; disconoscendo l'autorità del vecchio timoniere e rivolgendosi direttamente al "popolo" dal quale credeva di aver ricevuto l'investitura. Sognava, don Roberto. Sognava le dimissioni, soltanto preannunciate, di Pesaola, l'ammutinamento della "sua" squadra, la rivolta popolare.
   Giusto per annusare l'aria il comandante non lo sostituì subito; la società fu retta dal legale laurino Diamante, nominato commissario, poi la consegnò al figlio Gioacchino, aduso a gonfiare le spese per rimpinguare l'assegno mensile paterno e di affari come l'acquisto di 20mila galline ovaiole... Con il suo arrivo all'albergo Gallia lievitarono tutti i prezzi, anche quelli delle mignotte. Il campionato s'era chiuso al quarto posto, Gioacchino non badò a spese. Mancato l'ingaggio di Giggirriva, dal Mantova arrivò il giovanissimo Zoff, Altafini, con un consiglio non disinteressato di cui il tempo s'incaricherà di svelare a tutti la ragione, aveva ottenuto l'acquisto di Barison. Champagne per tutti, Porsche in regalo ai calciatori più bravi; a Natale ed ai compleanni, gioielli alle signore. Sarà secondo posto, ma sarà anche l'anticamera del fallimento, con il messo dell'Esattoria comunale arrivato in sede con un precetto di pignoramento per 15 milioni. Ed allora, via Gioacchino. Alla presidenza Antonio Corcione, amministratore delegato Roberto Fiore. Fiutata l'aria, Pesaola cambierà panchina con Chiappella, andando a vincere lo scudetto a Firenze. Sei mesi a regalare buste gonfie di biglietti omaggio; la presidenza Corcione si concluse con il suo funerale. In arrivo l'addio di Sivori, squalificato per sei giornate dopo una maxirissa nel corso di Napoli-Juve ed il ciclone Ferlaino. Nella foto, il presidente Gioacchino Lauro e Bandoni.

                                                   
Irrompe il ciclone Ferlaino

  In quel castello dei Borgia ch'era ridiventato il Napoli dimostrò di sentirsi a casa propria l'ultimo venuto. Sempre a caccia di sprovveduti alleati-finanziatori Roberto Fiore aveva ceduto cinque azioni ad uno sconosciuto costruttore edile; fu necessaria una battaglia legale con Lauro, lo statuto non lo consentiva. Il comandante alla fine lasciò perdere. Ma chi era questo Corrado Ferlaino, poteva mai far paura a lui? Mal gliene incolse. A lui ed a Fiore.
    Entrato di soppiatto con quella sua aria indefinibile ed una storia di strane leggende metropolitane alle spalle, Ferlaino alla fine poteva essere definito, nel più benevolo dei casi, uno stravagante. Era sfuggente; da lui non potevi prevedere mai da che parte sarebbe arrivato il colpo mortale. Di soppiatto arrivò anche a casa Corcione, facendo le scale a quattro per non farsi bruciare sul campo dai fratelli Mercadante che s'erano serviti dell'ascensore per trattare con la vedova del presidente l'acquisto del suo pacchetto azionario. Sentì una frase: s'accomodi, ingegnere; era rivolta ai Mercadante, costruttori, ma sprovvisti di laurea. Incuneò un piede nella porta prima che fosse richiusa e proclamò: qui l'unico ingegnere sono io! Vero; la laurea in ingegneria se l'era comprata, ma lui l'aveva sul serio. I compratori chiusi in due stanze, il cognato della vedova Corcione, Tardugno, faceva la spola. Al terzo rilancio, Ferlaino di soppiatto chiuse a chiave la stanza dov'erano i Mercadante. Promise a Tardugno di farlo diventare il suo braccio destro nel Napoli e strappò una firma in calce all'accordo: 70 milioni per il 30% delle azioni, valore nominale 36 milioni.
   Fiore, che l'aveva inviato a chiudere la trattativa per depistare i concorrenti, l'aspettava nel salotto di casa. Al suo arrivo, ed alla notizia che tutto era andato per il meglio, iniziarono i festeggiamenti; Fiore gongolava a sentir quell'appellativo "presidente, presidente". Ferlaino gelò tutti : "Sì, presidente. I soldi li ho cacciati io, il presidente lo faccio io". S'era accordato con Lauro, azionista di riferimento col suo 40%. Il comandante, sicuro di cucinarsi a dovere quel pivellino, lo chiamava figlio mio... Il 18 gennaio 1969 fu eletto presidente, aveva 37 anni e davanti un mare di problemi ed un posto nella storia. Non lo sapeva. Gli avevano fatto credere che i debiti ammontavano a 598 milioni; alla prima ricognizione scoprì che il buco era più vicino ai tre che ai due miliardi. Manco il tempo di ricevere le consegne e dovette sborsare 300 milioni. Lauro, scoperto con quale incoscienza si fosse tuffato nelle curve quel vincitore di Targa Florio, provò ad irretire Fiore. Fu bruciato sul tempo. Pontiere il comune amico Tullio Conte, convinse Fiore a vendergli il suo pacchetto azionario. Don Roberto delegò lo zio a portare avanti la trattativa. Il suo 21% di azioni, valore nominale 25 milioni e 250 mila lire, fu pagato 183 milioni.
   Come il Comandante, Ferlaino ha legato la vita del Napoli alla sua, talvolta utilizzando un'unica cassa. Ha assunto più volte la presidenza, diversi allenatori; comprato molti giocatori, rischiato il tutto per tutto per assicurarsi partite decisive quanto simpatie arbitrali. Chiappella che tentò di far sbocciare una nuova Fiorentina, Vinicio che praticò per primo un calcio-spettacolo e sfiorò pure lo scudetto, Marchesi mai capace di mettere in pratica la sua concretezza, Pesaola inseguito, conquistato, ripudiato; poi Bianchi e Bigon, i vincenti. Accanto a lui i manager migliori: lo scontroso Juliano, il fine Marino, il grande Allodi, il solfureo Moggi. Ha litigato e fatto pace con tutto il calcio che contava, lottato contro il mondo intero, la camorra. Ha resistito agli insulti ed alle bombe. Diabolico, vendicativo, subdolo, bugiardo, antipatico. Alla fine, il miglior presidente nella storia del Napoli. Nella foto, Ferlaino, fresco presidente, in moto.

                               
Maradona conquista Napoli

  Le aveva provate tutte. Ferlaino s'era messo contro Lauro per acquistare Clerici, un obiettivo già mancato anni prima; s'era messo contro la Juve e la pistola mostrata infilata nei pantaloni da Luciano Conti venuto inutilmente al bar dell'albergo milanese Principe e Savoia a chiedergli di strappare il contratto privato con cui gli aveva ceduto Savoldi. S'era messo contro i tifosi per aver venduto, in nome del bilancio, Zoff, Sala, Juliano, Bianchi. Sfidò ancora una volta il Sistema e le leggi per prendere Maradona, un affare intuito da Pierpaolo Marino allora all'Avellino e voluto da Juliano con tutta la sua testardaggine. Fu finalmente la sfida vincente. Se altri avevano avuto il merito di portare avanti quella temeraria trattativa, solo lui poteva concretarla.
   Maradona era già meglio 'e Pelè; nonostante la caviglia fracassatagli da Goicoechea, nonostante la vita già maledettamente disordinata. Voleva prenderlo l'Avvocato per la sua Juve; poi la confidenza riservata di un dirigente catalano lo dissuase e puntò per Platini, più vicino alla sua ironia tanto snob. Fu una fortuna per tutti.
   Di Maradona si conosceva tutto, grandezza e miserie; inimitabile in campo, impossibile fuori. Soprattutto si conosceva, dell'affare, la difficoltà nel portare avanti la trattativa con il presuntuoso Barcellona; e la richiesta, milioni di dollari. Alla fine ce ne vorranno sette e mezzo.
   Juliano si tuffò nella mischia come nella partita della vita. Si stabilì a Barcellona con Dino Celentano e Corrado Isaia, a stretto contatto con una variopinta corte di mediatori ed informatori coordinata da Jorge Cysterzpiler, il riccioluto e claudicante ebreo diventato il manager di Dieguito dall'epoca in cui alla "cebollita" nata a Lanus da un papà falegname aveva offerto la prima pizza della sua vita. Ferlaino seguiva tutto da lontano. Una volta andò a Barcellona pronto a firmare il contratto e se ne ripartì subito perché gli avevano cambiato le condizioni. Intanto, con l'appoggio di Enzo Scotti, il sindaco, e grazie all'amicizia di Ferdinando Ventriglia, presidente factotum del Banco di Napoli, si procurò i quattrini necessari. Più volte il consiglio di amministrazione del Banco si riunirà di sera all'hotel Excelsior per approvare i fidi bancari da inviare in Catalogna. Quando arriverà l'ennesimo, ma autentico via libera, era sabato 30 giugno 1984; a mezzanotte scadeva la campagna acquisti.
   Millantando un inesistente placet di Ventriglia, fece inviare dal funzionario di turno le garanzie bancarie richieste. Poi, su un executive, volò a Milano e si precipitò nella sede della Lega dove, alla guardia giurata di turno consegnò una busta, vuota, ed una mazzetta cospicua. Riprese il jet privato ed in tarda serata firmò a Barcellona il contratto definitivo. Ritornò a Milano alle due di notte, il termine ultimo per depositare il contratto abbondantemente scaduto. Tutti sapevano, la trattativa era stata condotta e conclusa in diretta sotto gli occhi di mezzo mondo interessato ed incuriosito; le radio catalane trasmettevano senza sosta interviste ed indiscrezioni, a Napoli una emittente televisiva non staccò mai la linea con il proprio inviato in collegamento telefonico. I giornali, quella notte, andarono in macchina fuori tempo massimo pur di annunciare la lieta novella: habemus Maradonam. Tornato in Lega, Ferlaino sostituì la busta vuota con quella contenente il contratto. Nessuno volle accorgersene. Il 5 luglio al San Paolo, dove erano già in vendita maglie azzurre con il numero 10 ed il nome del titolare. 70mila e passa tifosi in delirio pagheranno mille lire per assistere ai primi palleggi dell'idolo che oscurerà tutti, Dieguito. Nella foto, uno degli "altarini" dedicati a Diego  dai tifosi napoletani.

Due scudetti e la Coppa Uefa

  P
er realizzare il sogno occorsero due anni. E la rivisitazione di tutte le strutture. In società arrivarono Pierpaolo Marino ed Italo Allodi. Sulla panchina s'accomodò l'orso Bianchi, l'ex sindacalista di cui l'Ingegnere s'era disfatto. Pur immenso, Maradona da solo non bastava. Ed allora ecco De Napoli, Carnevale, Romano accanto agli scugnizzi allevati in casa, Celestini, Carannante, Caffarelli, Puzone, Muro e quel diamante purissimo cui Marchesi aveva preconizzato la Nazionale Ciro Ferrara. E fu scudetto. Con una giornata d'anticipo il Napoli pareggiando in casa con la Fiorentina (10 maggio 1987) vinse il primo scudetto della sua storia e completò il capolavoro con la terza Coppa Italia. Al club andò anche il trofeo "fair play" destinato al pubblico ed alla squadra più corretti.
   La città si dipinse tutta con i colori del mare, la millenaria vena poetica ebbe libero sfogo. A Poggioreale, nei pressi del cimitero, una malinconica mano anonima scrisse: guagliù, e che ve site perzo... Tempo una notte. La risposta fece il giro del mondo: "e chi ve l'ha ditto!? "
   La stagione successiva, pur rinforzata da Careca, la squadra mancò un bis annunciato e, a tre quarti di campionato, unanimamente giudicato inevitabile. Accadde che s'era rotto il feeling tra Bianchi e la squadra. E che ormai in Maradona la sregolatezza cominciava ad essere pari al genio. In un rapporto della Questura erano contenute le foto di lui in una vasca da bagno dorata in compagnia dei fratelli Giuliano, i camorristi che gli regalavano e lo rifornivano di cocaina. A Castelcapuano, dove il rapporto era giunto, qualcuno lo seppellì in un cassetto; c'era da rivincere lo scudetto. Ed invece lo vinse il Milan. Un'inchiesta non stabilì mai quanto fondata fosse la voce secondo cui quel tricolore lo assegnò la camorra per evitarsi un crac economico, avendo accettato ingenti puntate al totonero sul Napoli campione d'Italia.
   Ferlaino non s'arrese; cercò la rivincita e l'ebbe ma solo in campo internazionale. 17 maggio 1989, a Stoccarda il Napoli conquistò la coppa Uefa; lo scudetto andrà all'Inter. Tornerà, il tricolore, l'anno successivo con il mite Bigon sulla panchina liberata da Bianchi. L'estate era stata movimentata dal tormentone Maradona, scomparso in Argentina, mentre Tapie aveva rivelato di aver raggiunto un accordo con lui per portarlo a Marsiglia. Fu necessario rinegoziare il contratto con Dieguito, in pratica riacquistandolo; altri sette milioni e mezzo di dollari. Ed arrivò il bis, due punti in più sul Milan, grazie anche alle monetina che colpì Alemao nel corso di Atalanta-Napoli trasformando il pareggio in una vittoria ed al harakiri milanista nel finale di stagione.
   La cosa più difficile ormai era diventata la gestione di Maradona, sempre più schiavo della bianca polverina degli dei; l'impresa fu affidata a Luciano Moggi. A furia di compromessi e di bugie, di provette sostituite al controllo antidoping, si andò avanti. Poi il patatrac: beccato positivo; cocaina, ovviamente, la droga che ne deprimeva le prestazioni agonistiche. Un agguato ed una vendetta ordita all'interno del club, ha sempre sostenuto lui. La squalifica gli impedì di portare a termine il campionato. Fu ceduto al Siviglia. Il suo sole cominciava malinconicamente a tramontare. Prese ad impallidire anche la stella di Corrado Ferlaino, s'avvicinava il ciclone Tangentopoli. E per il Napoli un inarrestabile declino. Nella foto, Maradona con la Coppa Uefa da poco conquistata.


Gli anni bui, dopo Tangentopoli  

   Coinvolto in Tangentopoli per l'appalto dei Regi Lagni, all'alba Ferlaino si costituì in una caserma dei Carabinieri, passò per l'ufficio matricola di Poggioreale, confessò parte dei suoi segreti e delle sue verità ai magistrati, e la sera dormì nei proprio letto, agli arresti domiciliari. Ottenutane la revoca, uscì di scena. La presidenza (1993) passò temporaneamente ad Ellenio Gallo, intervenuto più volte, senza rimetterci troppo, ad assicurare liquidità alle casse sociali. Lo affiancò, toh chi si rivede!, Ottavio Bianchi riciclatosi come direttore generale. A guidare la squadra, Marcello Lippi. All'ultima giornata di una stagione contrassegnata da problemi economici sempre più gravi (i calciatori ad un passo dalla messa in mora del club), fu centrata la qualificazione in Uefa.
   Poteva essere la rinascita. Ed invece per far cassa furono ceduti Ferrara, Crippa, Thern, Zola. Ferlaino per la prima volta era azionista di minoranza, avendo ceduto i pacchetti di controllo a Gallo e a Setten; un altro aspirante dirigente, Vincenzo Pinzarrone, fu arrestato appena preso possesso di una scrivania a Soccavo; i titoli di credito versati in banca per l'acquisto di Cruz e Rincon erano falsi! Squadra affidata a Guerini, poi a Boskov.
   Il 20 giugno 1995, un nuovo presidente: nientedimenoche, Corrado Ferlaino, tornato per evitare il crac (forse anche quello del suo gruppo) grazie al sindaco Bassolino e al presidente federale Matarrese. La squadra non era malvagia, l'allenatore valido: Gigi Simoni, licenziato alla vigilia della finale di Coppitalia, per essersi promesso all'Inter. Ferlaino non accettava di subire le scorrettezze ch'era pronto a commettere.
   Il campionato seguente fu caos totale: 4 allenatori (Mutti, Mazzone, Galeone, Montefusco), per conquistare 14 punti; il ritorno del "nemico" Juliano dopo 13 anni e della B dopo 33. Nell'inferno della cadetteria si rosolerà a dovere il narciso Ulivieri. Ci vorrà la grinta sanguigna di Novellino per tornare in A; mentre il traguardo era vicino, il 5 aprile 2000, Ferlaino cedette a Giorgio Corbelli il 50% del pacchetto azionario. Coprendo con 100 miliardi le esposizioni di Ferlaino verso le banche, il nuovo arrivato acquisì in comproprietà anche un suolo a Giugliano e le quote di maggioranza di palazzo D'Avalos.
   La serie A fu un dramma in un clima di tutti contro tutti. La diarchia a volte funzionava nell'antica Roma; tra i consoli del Napoli furono liti e dispetti. Nessuno si assumerà la paternità dell'ingaggio di Zeman, né la sua sostituzione con Mondonico. Sarà tutta sulle loro coscienze la salvezza mancata per un solo punto.
   Andranno avanti così con l'ennesima rifondazione, affidata a De Canio. A crederci, il solo Corbelli. Ferlaino, non più. L'unico suo obiettivo era ormai un'uscita di scena alla grande, che facesse dire ch'era stato come sempre il più furbo; cioè ben ricompensato. Nella foto, Lippi: centrò l’ammissione del Napoli  in Coppa Uefa.

                                    
Da Corbelli a Naldi, poi il baratro

   Ferlaino voleva vendere, Corbelli doveva comprare. La storia s'era ripetuta; con il secondo nella scomoda parte toccata all'Ingegnere all'esordio della sua prima presidenza. Per salvare l'investimento era indispensabile liquidare il socio rivale. Gli occorreva un partner. Lo trovò in un amico del suo braccio destro napoletano. Al termine di una cena al Savoia, l'imprenditore alberghiero Salvatore Naldi disse sì alla proposta indecente: venti miliardi per il 10% del disastrato Calcio Napoli. Fu il più bel regalo di Natale ricevuto da Corbelli e, indirettamente, da Ferlaino. Era dicembre del 2001.
   Due mesi più tardi, il 12 febbraio 2002, presente Salvatore Naldi che garantiva parte del pagamento e portava al 20% la sua partecipazione, fu firmato il contratto che sanciva la definitiva uscita di Ferlaino dal Napoli. Corbelli non ebbe il tempo di gioire. Appena un mese, il 17 marzo, su mandato della Procura di Bari si trovò in carcere per una storia di poco trasparenti vendite all'asta. In galera maturò il convincimento che l'origine dei suoi guai era in quella presidenza. L'istanza di fallimento del Napoli e la nomina di un curatore, il prof. Gustavo Minervini, lo indussero a passar la mano.
   Naldi s'era tuffato in un corso accelerato di presidenza; nelle condizioni peggiori e nonostante l'invito della famiglia e dei consulenti a lasciar perdere, quaranta miliardi erano uno sfizio ancora sopportabile. Invece decise che da quel momento in poi nessuno dovesse più dirgli cosa fare. Disse ai suoi di andare avanti nelle trattative: i soldi c'erano, sapeva lui dove prenderli. Il 30 maggio all'hotel Mediterraneo si festeggiò la conclusione della trattativa con Corbelli; il 21 giugno, a Soccavo, la sua nomina a presidente. Oggi si avvera un sogno, disse, un tifoso diventa presidente del Napoli. Spiegò perché l'aveva fatto: la sua famiglia aveva un debito morale con la città, voleva saldarlo. Chiese aiuto e collaborazione: alle istituzioni, agli imprenditori della città, ai tifosi. Da questi ultimi ottenne simpatia, ma anche le coltellate di aggressioni ai giocatori e di due invasioni di campo (al S. Paolo contro la Salernitana e nell'ultima stagione ad Avellino) che compromisero irrimediabilmente due campionati. Gli imprenditori confermarono con il silenzio di essere poco allenati ad affrontare i rischi. Le istituzioni provarono a stargli vicino senza mai seguire l'esempio dell'amministrazione comunale di Torino. Si fecero avanti avventurieri e millantatori, il misterioso giordano Haq, avvoltoi. Dovette e volle far da solo. Tra quattro candidati al ruolo di general manager scelse l'ultimo, Marchetti, il più inadeguato ed inesperto. Dovette fare i conti con Moggi, abile nel promettere tutto per non mantenere niente, piazzati a prezzi altissimi calciatori bolliti e tecnici ossequienti della scuderia del figlio. A dicembre  disse basta, non tirerò fuori più un centesimo, ho dei doveri verso la mia famiglia: erano i circa 400 dipendenti della sua impresa alberghiera, messi in pericolo dal Napoli. Così i libri sociali della SSC Napoli sono tornati in Tribunale, per restarvi definitivamente. Naldi è uscito battuto, come il presidente del fallimento. Ha sbagliato, ma per troppo amore. Il tempo, galantuomo, si incaricherà probabilmente di stabilire un giorno che dopo Giorgio Ascarelli è stato il secondo presidente, nella storia del club, a pagare tanto di tasca propria. Nella foto, Totò Naldi il presidente del fallimento del Napoli.
 

Carraro s’inabissa, De Laurentiis emerge

   Nelle aule del Tribunale, nei Palazzi della politica e nella sede della Federcalcio si inizia una corsa contro il tempo per evitare la scomparsa di Napoli dal panorama calcistico nazionale. Una lotta furibonda segnata da ritmi di sceneggiata con attori non tutti all’altezza del ruolo. I tifosi recitano la parte assegnata nelle tragedie greche al pubblico: spettatori ma anche coro cioè parte attiva dello spettacolo. S’innamorano di Gaucci il quale, prima di rifugiarsi in un esilio sudamericano e sfuggire ai guai giudiziari collezionati in più città italiane per vicende calcistiche, tenta la scalata al Napoli. Naldi ingannato da politici, i quali lo costringono a mortificanti peregrinazioni in istituti bancari le cui porte risultano casseforti blindate, è costretto alla resa. In pista altri due candidati: l’udinese Pozzo ed il napoletano De Luca, diventato presidente del Siena. All’ultimo momento nella Cancelleria del Tribunale, da Capri, arriva l’offerta vincente: il produttore cinematografico Aurelio de Laurentiis sbaraglia la concorrenza e fa nascere il Napoli Soccer. 2004. Si riparte dalla Serie C 1. Pierpaolo Marino , nuovo Direttore Generale, in dieci giorni allestisce una squadra affidata a Giampiero Ventura. Occorreranno ritocchi e cambi di gestione per arrivare ai play-off promozione, perduti nella doppia sfida con l’Avellino. La stagione successiva ad Edy Reja basteranno pochi ritocchi per trasformare il campionato in una cavalcata travolgente. Mentre il calcio italiano è sconvolto dalla tempesta più grave della sua storia, in cui si inabissa anche l’ "infame Carraro", il Napoli torna a rivedere il sole dei campionati maggiori. De Laurentiis mantiene la promessa, ed in soli tre stagioni riesce a risalire dalla Serie C alla Serie A. Missione felicemente compiuta.  Nella foto,  il famoso striscione dei tifosi azzurri contro Franco Carraro.

                                                                                                        Romolo Acampora  
 

 Come nacque il grande Napoli di Ascarelli e Garbutt
di Attila Sallustro
             
     Vi proponiamo un articolo scritto dal grande  Attila Sallustro (1926-1983) nel marzo del 1965, su “La grande storia del Calcio Italiano” per ripercorrere il suo periodo più bello, quello degli Anni Trenta con il famoso e applaudito Napoli di Giorgio Ascarelli e di Willy Garbutt:


     Soffro di nostalgia o sono troppo legato ai giorni che mi videro in maglia azzurra? No, non credo che siano questi i sentimenti a dettarmi quanto vi dico. Vi sono i risultati, le classifiche, gli episodi che parlano a sostegno della mia tesi. Non si potrebbe parlare di un grande Napoli, oggi se questo grande Napoli non fosse esistito ieri. Per i giovani è storia lontana, sconosciuta.
     La costruzione dello Stadio al Rione Luzzatti, il Napoli da Coppa Europa, il trio Vojak, Sallustro, Mihalic, le “forbici” di Vincenti, il “sorcetto” Benfatti, gli “scatti” di Innocenti, la famosa partita con l’Admira all’Ascarelli, il sensazionale acquisto di Colombari per 250.000 lire di allora, l’auto Balilla che Ascarelli mi regalò nel 31-32 quale unico compenso alla mia opera, sono tutti nomi e fatti che la maggioranza dei giovani di oggi ignorano.
    Come nacque il grande Napoli del 1933 e del 1934, quello della Coppa Europa? Nacque dalla volontà, dalla sportività, dalla sagacia di un uomo: Giorgio Ascarelli che promise di evitare che il Napoli ogni anno dovesse lottare per la retrocessione od evitarla solo per superiori interventi. Per questo nacque il “Piano Ascarelli”. Costruì a sue spese lo stadio al Rione Luzzatti, mandò a chiamare mister Garbutt, che era allora allenatore della Roma e prima aveva guidato il Genoa e fece compilare da lui il piano tecnico.
    Si era nella stagione 1929-30. Furono acquistati Cavanna, Vincenzi, Benfatti, Vojak, Mihalic. Alla fine del campionato rappresentammo la grossa sorpresa, finendo al quinto posto, primi del centro-sud, con generale ammirazione. A Vojak, a Mihalic ed a me toccò la soddisfazione di finire in Nazionale contro il Portogallo, partita vinta per 6-1 (due gol di Mihalic ed uno di Sallustro n.d.r.). La convocazione fu preceduta da una delle vittorie più clamorose della nostra squadra: quella che andammo a cogliere sul campo del Modena per 5-0 (doppiette di Vojak e Mihalic e gol di Sallustro n.d.r.).
    Giorgio Ascarelli aveva un piano ben preciso: fare del Napoli in tre anni una squadra in grado di lottare, con le “grandi” dell’epoca, per lo scudetto. La morte lo ghermì troppo presto: appena un anno dopo l’inizio dell’attuazione pratica del suo progetto.
    Seguirono anni di sbandamento: il nuovo Consiglio non riuscì a procedere sul cammino di Ascarelli e la Società non visse momenti buoni, economicamente. Sul piano tecnico, l’acquisto di Volante che doveva risolvere il solo problema della squadra, quello del centromediano, fallì allo scopo. Né bastarono gli ingaggi di Castello, Colombari, Fontana e Fenili a far più forte la squadra. Così perdemmo alcune posizioni al termine della stagione e l’anno successivo finimmo addirittura al nono posto.
    Comunque, per me furono anni di grandi soddisfazioni, come quando, essendosi fatta acutissima la rivalità fra me e Meazza (una rivalità solo sportiva in quanto tra me e il “Pepin” è sempre regnato il massimo accordo e vi è stata sempre reciproca stima e amicizia) in una partita giuocata nella mattinata della festa dell’Ascensione del 1930, tra noi e l’Ambrosiana, imperniata proprio nel confronto diretto tra i centravanti delle rispettive squadre, il Napoli vinse per 3-1 disputando una delle partite più belle della storia ed io segnai due dei tre gol alla squadra che poi vinse lo scudetto. Alla fine mi portarono in trionfo dal campo fino al centro della città ed il traffico restò interrotto per più di un’ora. Tanto entusiasmo aiutò i dirigenti a superare i momenti critici, determinati da una situazione economica non troppo brillante. Dopo qualche scossa, entrati nel Consiglio Savarese, Consolazio, Merlini ed Improta, il Napoli riebbe finalmente un’impalcatura assai solida. A questo consolidamento economico corrispose sul piano tecnico una mossa indovinata: Garbutt si convinse che era inutile andare a cercare il centro mediano fuori e puntò direttamente su Buscaglia. Ne sortirono subito effetti miracolosi: la squadra prese a girare benissimo.
    Nel 1932-33 finimmo al terzo posto a pari merito col Bologna, dietro alla Juve campione ed all’Ambrosiana-Inter. Ci classificammo terzi, ma da soli, anche nel campionato successivo, nel 1933-34, e sempre dietro l’Ambrosiana e la Juve scudettata. Fu una stagione trionfale e ci meritammo per la prima volta anche il privilegio di difendere i colori italiani nella Coppa Europa, la bella competizione internazionale alla quale partecipavano le prime squadre d’Italia, Austria, Ungheria e Cecoslovacchia.( Ricordiamo la formazione di quella stagione: Cavanna, Vincenzi, Innocenti, Colombari, Buscaglia, Boltri, Benatti, Vojak, Sallustro, Gravisi, Ferrarsi II,  n.d.r.)
    A noi nel primo turno toccò di incontrare l’Admira che era una delle favorite del Torneo. La prima partita si disputò a Vienna sul campo del Prater, e finì a reti inviate, facendoci sperare di aver superato il durissimo ostacolo. Infatti, nella partita di ritorno a Napoli, ad un quarto d’ora dalla fine vincevamo per 2-0, (reti folgoranti di Sallustro e Vojak su rigore n.d.r.) senonchè Rossetti e Rivolta, sicuri del fatto loro, presero a giocherellare per due volte, con preziosismi inutili, l’ala sinistra austriaca Durspekt soffiò loro il pallone segnando i due gol che permisero all’Admira di pareggiare. Sette giorni dopo, sul “neutro” di Zurigo ebbe luogo lo spareggio, ma le prendemmo sode (5-0) e fummo eliminati dagli austriaci che poi perdettero a settembre la finalissima con il Bologna. Su questo incontro di Zurigo terminò praticamente il periodo d’oro del Napoli (dopo la sonora sconfitta con l’Admira tutti i giocatori furono multati dalla Società ed a Sallustro fu addirittura tolta la fascia di capitano n.d.r.).
          
                                                                                                           
                                                                                                              Attila Sallustro